Se la serenità che ci avvince nel periodo natalizio è legata in qualche modo al richiamo rassicurante della continuità del nostro essere vivi, presenti, attivi e fecondi su questa terra, la Pasqua in qualche modo scombussola le carte: qui a dominare è una miscela “esplosiva” di serenità e inquietudine, generata dal mistero fitto (e che non finirà mai di scuotere le coscienze e la ragione dell’umanità finché esisterà su questa terra) della parte finale dell’esistenza e del destino che ci attende al di là di essa.

A questo destino chiamato morte, dal quale – come ci ricorda San Francesco – “nullu homo vivente pò skappare”, è stato Gesù di Nazareth a dare una risposta che pone su di essa un sigillo definitivo. Gesù ci dice che la morte non ha la parola definitiva perché Lui ha piena potestà su di essa. Per la prima volta nella storia, in una grotta fuori dalle mura di Gerusalemme l’indicibile, l’impossibile, hanno avuto compimento. Qui il corpo martoriato di un giovane rabbi che per tre anni aveva predicato per le strade della Palestina al tempo dell’imperatore Tiberio manifestando santità, autorità e potere di miracolo in una misura che non aveva precedenti nella storia del popolo d’Israele – e che in corrispondenza della Pasqua ebraica probabilmente dell’anno trenta fu arrestato, processato, torturato e infine condannato alla crocifissione – era scomparso improvvisamente dal sepolcro in cui fu depositato due giorni prima.

Gli evangelisti e in primis quella diretta dell’amato discepolo Giovanni, riportano dettagliatamente cosa accadde in quelle ore di totale confusione e che possono essere riassunte in questo modo: non solo quel mattino di domenica il sepolcro era stato trovato vuoto, ma i quaranta giorni che seguirono lo stesso Gesù era apparso loro, vivo!
Nessuno è logicamente costretto a credere a questo dato che miliardi di cristiani, da duemila anni a questa parte e in ogni parte del mondo, pongono come fondamento della loro fede, anche perché semplicemente questa, in quanto dono che viene dall’alto, al pari del coraggio per don Abbondio uno, se non ce l’ha, da solo non se la può dare.

Non esiste evidentemente prova scientifica in grado di dirimere l’enigma che rimarrà tale, secondo il credo della Chiesa universale, fino a quando Gesù, alla fine della storia, ritornerà con grande potenza e gloria. La stessa disciplina storica, da sola, non è in grado di determinare le verità di fede.
Questo avviene non per caso essendo Dio stesso ad aver deciso di garantire ad ogni essere umano la piena libertà di aprirsi o rimanere chiusi al trascendente, di coltivare la propria spiritualità o vivere al pari degli animali in una dimensione esclusivamente materialistica, ancorché sorretta dalla razionalità (che deve tuttavia fare costantemente i conti con l’istinto).

L’incredulità pare essere il leitmotiv di questa stagione liquida della storia di un Occidente sempre più secolarizzato. Eppure non è detta l’ultima parola. Chi avrebbe ad esempio potuto ipotizzare che le popolazioni dell’ex Patto di Varsavia, a cui i regimi comunisti avevano deciso di imporre la propria cupa dottrina materialista e senza Dio, dopo una sola generazione avrebbero vissuto un ritorno in massa alla pratica religiosa, mentre la percentuale di chi si dichiara ateo, nella sola Russia si attesta oggi solo al 7% e continua a diminuire?
Chi vivrà vedrà, dunque.

Va detto che stesse parole di Gesù riportate da Luca (“Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”) non risolvono ma semmai acuiscono il mistero circa il futuro che ci attende. Proprio per questo i cristiani di ogni generazione (e in primis quelli di oggi) sono chiamati ad essere protagonisti nel testimoniare ai lontani e agli scettici che quel sepolcro era rimasto misteriosamente vuoto perché il cadavere che lo aveva occupato per due giorni apparteneva, semplicemente, al Signore della storia.