L’ultima nata tra le autonomie speciali è quella del Friuli-Venezia Giulia. Terra mitteleuropea per antonomasia, è un caso unico in tutto il vecchio continente di coesistenza su uno stesso territorio delle tre principali famiglie linguistiche indoeuropee (quelle neolatina, germanica e slava).

La stessa denominazione ne evidenzia l’articolazione in due aree storico-linguistiche distinte: da una parte il Friuli, in cui si parla il ladino friulano (lingua retoromanza strettamente imparentata al romancio dei Grigioni e al ladino delle dolomiti); dall’altra ciò che rimase all’Italia della spartizione con la Jugoslavia delle zone alpino-dinariche dell’ex impero austro-ungarico, secolarmente contraddistinte da una convivenza non sempre pacifica tra popolazioni di etnia italiana e slava.

Ma l’istituzione della Regione autonoma ha fatto emergere anche un’insofferenza, che spesso sfocia in un’autentica ostilità: quella del cosiddetto Friuli storico – che comprende anche Gorizia – nei confronti del capoluogo Trieste, additato quale accentratore e indifferente verso la maggioritaria popolazione friulana (e da qui discende la recente proposta di modifica dello Statuto che mira ad avere una nuova articolazione della Regione in due distinte province autonome sul modello del Trentino-Alto Adige).

Se quindi Valle d’Aosta, Sudtirolo e Venezia Giulia sono penisole linguistiche e godono in quanto tali di visibilità e attenzione più o meno partecipata da parte dei nostri dirimpettai d’oltreconfine – e questo ne assicura una protezione più o meno ampia – il sardo e il ladino-friulano ancorché nettamente distinti dall’italiano e dai suoi dialetti, non sono in grado di godere dei benefici che derivano dalla necessità per l’Italia di mantenere buone relazioni diplomatiche con altri Stati.

E’ questo il motivo principale del ritardo con cui è avvenuto il riconoscimento delle nostre minoranze linguistiche storiche (a cui vanno aggiunti i catalani di Alghero e altri gruppi sparsi lungo la penisola e fino ad allora del tutto privi di tutela), avvenuta con legge dello Stato 482 nell’ormai lontano 1999. Si tratta di una legge a suo tempo considerata storica perché applicativa di uno dei principi fondamentali della Costituzione, ma che a distanza di quasi vent’anni mostra ampiamente i suoi limiti: non prevedendo infatti una tutela sistematica come avviene – sulla base degli Statuti di autonomia ed altre leggi ad hoc – per valdostani, altoatesini e sloveni, l’attivazione delle sue norme è demandata ad iniziative estemporanee di consigli d’istituto, amministrazioni pubbliche o singoli cittadini.

Si tratta sostanzialmente di un volontarismo a macchia di leopardo che solo in parte è riuscito a modificarne la complessiva condizione di diglossia (che significa in parole povere subalternità giuridica e sociale) e che sfocia sempre più spesso nella dilalìa (e cioè nell’impiego dell’italiano, ancorché nella sua variante regionale, anche nei contesti informali).

Ma molte cose sono cambiate negli ultimi anni: l’esplosione di internet ha dato nuovo vigore e visibilità al sardo scritto, accrescendone il prestigio e favorendo il dialogo tra posizioni che parevano inconciliabili in merito alla sua standardizzazione; un pubblico sempre più vasto ha preso coscienza di informazioni scientificamente comprovate sui benefici del multilinguismo così come di quelle che sfatano una volta per tutte luoghi comuni ultradecennali sull’uso delle lingue locali; le nuove generazioni, molto più mature di quelle dei loro genitori, sono ormai consapevoli del fatto che essere cittadini del mondo non si pone affatto in contrapposizione con l’identità locale, ma anzi quest’ultima è un valore aggiunto che accresce il loro capitale umano e il capitale sociale di tutti noi.

Un cenno obbligato merita anche il nostro passato: tutti noi abbiamo patito sulla nostra pelle la regola in base alla quale la storia la fanno i vincitori. I testi scolastici hanno presentato la civiltà dell’isola in modo frammentario, sminuendone la portata e accompagnandola troppo spesso a svarioni o vere e proprie manipolazioni.

Oggi, alimentata dall’entusiasmo e dall’interesse di cittadini, vecchi e nuovi media, che circonda il sito di Mont’e prama – ma anche le nuove teorie scientifiche circa l’identificazione dei nuragici con gli Shardana popoli del mare o quelle non meno affascinanti, ancorchè forse meno rigorose, sull’identificazione della Sardegna con Atlantide – ha fatto maturare presso politici, intellettuali e comuni cittadini la consapevolezza che la civiltà dell’isola ed in particolare i suoi periodi preromano, giudicale e rivoluzionario, debbano finalmente entrare nelle aule scolastiche e universitarie non più dalla porta di servizio ma semmai da quella principale.

Per questi motivi – ma più in generale a causa dello scarsissimo interesse, oltre che in virtù della reiterata e talvolta imbarazzante incapacità da parte delle amministrazioni dello Stato di promuovere e valorizzare appieno la nostra civiltà – appare ormai evidente la necessità che la nostra Regione autonoma si appropri della competenza primaria in materia di cultura, a trecentosessanta gradi.

Un discorso del tutto analogo va fatto in merito all’ordine pubblico: materia sempre incredibilmente snobbata dalla classe politica locale – chissà se più per ignavia o per senso di inadeguatezza – al punto che la previsione statutaria della possibile delega da parte del governo alla RAS di tali materie, pur nell’ambito delle direttive di Roma, non è mai stata formalmente richiesta.

Eppure la geografia, che vede l’isola separata da centinaia di chilometri di mare dall’Italia continentale, sommata all’evidente alterità statistica in materia di criminalità – alterità che in questi decenni non è mai venuta meno – avrebbero dovuto suggerire ai padri statutari, soprattutto per ragioni di efficacia ed efficienza nell’azione di contrasto alla devianza, l’attribuzione delle funzioni di polizia al presidente della Regione, al pari di quanto previsto espressamente dal di poco precedente Statuto siciliano e in modo non dissimile dalla Valle d’Aosta, al cui presidente è attribuita la delega delle funzioni prefettizie.

Se poi allarghiamo il nostro sguardo al resto d’Europa possiamo subito renderci conto che in tutti gli Stati federali, a partire dalla Germania, oltreché nelle realtà autonomistiche avanzate di Spagna e Regno Unito, gli enti territoriali esercitano tranquillamente le loro competenze sia in tema di ordine pubblico che di giustizia, e nessuno per questo si straccia le vesti. Perché noi dovremmo essere da meno?

L’anacronismo dello Statuto del 48 è poi evidentissimo in alcune sue parti che nei decenni scorsi non hanno subito revisione: Cagliari è ancora definita capoluogo della Regione e non capitale; non esiste nessun riferimento alla bandiera; la lingua sarda e il catalano di Alghero non sono nemmeno menzionati; l’esecutivo è denominato giunta al pari di un’amministrazione provinciale; finora non ha mai avuto attuazione la norma sull’istituzione di punti franchi, ma dal dopoguerra a oggi la realtà geoeconomica non solo europea e mediterranea è cambiata totalmente; continua beffardamente ad essere in vigore, quasi a volerci ricordare i fallimenti del passato, il famigerato articolo 13, che costituì la base giuridica per i piani di rinascita dei primi anni 60.

L’elenco potrebbe continuare, ma è evidente che la Sardegna non può più permettersi, di fronte agli straordinari mutamenti tecnologici, economici e politici globali, di continuare ad avere come base giuridica della propria autonomia uno Statuto considerato inadatto, a ragione della sua debolezza, perfino da parte degli stessi costituenti sardi che contribuirono ad approvarlo, 70 ere geologiche fa. E’ ora di voltare pagina. Ci serve uno Statuto 2.0.