(Pro lèghere s’artìculu in sardu pùnghere subra sa bandera in artu)

La cifra comune della Sardegna è il piccolo. Sono piccoli i cavallini della Giara, sono piccole le pecore della razza sarda antica, sono piccoli i cinghiali e gli asinelli dell’Asinara, piccoli la maggior parte dei paesi, così come noi stessi abitanti. Sembra che il territorio circostante abbia influenzato tutto l’ecosistema.

Lo stesso vale per l’ecosistema economico. Le imprese sarde sono spesso additate come troppo piccole. Il nanismo aziendale, insieme alla sottocapitalizzazione, vengono indicati come problemi endemici dell’imprenditoria sarda, a cui ha sicuramente contribuito un sistema bancario baronale miope e troppo influenzato dal solito, onnipresente, vizio clientelare.

Sembrerebbe assodato, si dà addirittura per scontato, che essere piccoli dal punto di vista economico sia sempre uno svantaggio. In effetti non lo è per niente, anzi proprio l’essere piccoli potrebbe essere la chiave della nostra salvezza.

La nostra Isola è popolata da piccole realtà che resistono da decenni in un ambiente economico ostile, mentre quelle grandi implodono non senza aver lasciato cenere e danni, dopo aver succhiato sangue e linfa ai territori, come in ogni tristemente nota tradizione colonialista. Tutti i tentativi di portare avanti modelli imprenditoriali di grandi dimensioni sono falliti miseramente lasciando solo croci e i deserti di Ottana, Macomer, Siniscola, Porto Torres, Isili, Iglesias, Villacidro.

Oggi ci troviamo nuovamente a fronteggiare altre emergenze. La crisi agropastorale suggerisce nuove riflessioni. Le difficoltà attuali in realtà arrivano da lontano, probabilmente dall’insistente tendenza a voler stravolgere la nostra natura di piccoli, a voler a tutti i costi trasferire e replicare paradigmi per cui non siamo predisposti.

In realtà rimane il dubbio se questi modelli giganti, industriali o agricoli che siano, possano essere adatti a qualsiasi contesto e, quindi, a quello sardo. Resta irrisolto il tema della sostenibilità di cui ormai parlano tutti: è possibile realizzare un sistema di grandi dimensioni in modo tale da non alterare, squilibrare o sottrarre tante energie al punto da collassare? Un sistema congegnato in modo da autoalimentarsi, senza consumare tutte le risorse e senza avere la necessità di essere integrato continuamente con nuovi apporti per evitare il tracollo?

Non è facile avere una risposta definitiva e assoluta. Certo che se ci guardiamo intorno, i modelli industriali sardi citati sopra dànno già da soli la risposta: nessuno di essi finora è rimasto in piedi senza l’accanimento terapeutico dello Stato e della Regione che hanno continuamente apportato risorse, in modo mai risolutivo, magari sottraendole da altri ambiti e negando di fatto l’insostenibilità di un sistema tenuto in vita artificialmente.

Stesso discorso vale per il mondo agricolo. Qui in maniera diversa, ossia tramite le incentivazioni, si è voluto indirizzare il modello verso quello intensivo, spesso monoculturale, senza considerare che così facendo si sarebbe creato il problema della dipendenza dall’esterno per gran parte degli approvvigionamenti.

Monocolture e colture intensive che impoveriscono il terreno necessitano continuamente di integrazioni di concimi, anticrittogamici, sementi progettate per essere trattate con essi. Il tutto in mano ormai alle grandi multinazionali mondiali che presto potrebbero essere nelle condizioni di decidere tutto di noi.

In entrambi i casi, impresa agricola e non, influisce pesantemente il ruolo delle banche. Infatti per far crescere sistemi economici più grandi è necessario l’intervento del credito. Ma purtroppo, come ben sappiamo, in Sardegna il sistema creditizio è già stato fagocitato da altri grandi operatori e la parte pubblica del credito sardo è stata ceduta in modo assai poco lungimirante. Inoltre, come ci raccontano ancora una volta le cronache odierne, il credito viene usato come strumento clientelare dai gruppi di potere di turno.

L’eccessiva dipendenza dalle banche è sempre un’arma a doppio taglio, perché se da un lato aiuta a crescere l’economia in modo sostenuto, dall’altro vincola le aziende ad una crescita continua finalizzata a far fronte agli impegni creditizi.

Una piccola azienda in genere non contrae grandi impegni bancari e nei momenti di difficoltà riuscire a concentrare le proprie risorse per adattarsi alle situazioni, anziché per pagare mutui, risulta fondamentale.

Essere piccoli consente di avere l’elasticità necessaria per reagire ai cambiamenti continui dei mercati e della società. Le piccole realtà aziendali sono molto più agili e capaci di cambiamenti veloci e immediati.

Se poi pensiamo alle piccole comunità delle zone marginali, paradossalmente potrebbero essere queste a poter segnare nuove strade per l’agricoltura Sarda. La differenza è quella tra una agricoltura intensiva, tendente all’industrialismo, contro un’altra di qualità, multifunzionale e multisettoriale, a livello umano. A livello di Sardegna.

Una piccola azienda agro-zootecnica multifunzionale e multisettoriale riesce a reagire alle avversità tipiche del rischio agricolo in maniera molto più agevole, compensando i rischi delle varie attività tra di loro; al contrario le monocolture o le aziende intensive non hanno alternativa in caso di annata sfavorevole.

L’incredibile molteplicità dei luoghi della Sardegna necessita di differenti programmazioni: è difficile raggiungere risultati ottimali partendo da un’unica direzione centrale. Allo stesso modo una situazione così complessa non può essere risolta solamente con soluzioni di emergenza; non bastano nemmeno le sole misure economiche, ma bisogna armarsi di pazienza e impegnarsi ad unire e fare sintesi, anziché dividere, e cercare di mettere al bando rissosità e diffidenze.

La ricerca di una nuova via non si deve limitare solamente al mondo politico: ognuno di noi può e deve fare qualcosa nel proprio piccolo per cambiare, cercare di essere d’esempio per contribuire a rigenerare nel popolo la capacità di riconoscere sé stesso nella propria indipendenza, capace di affrancarsi da una sudditanza secolare.

Un popolo degno di quella che fu forse la prima antica civiltà evoluta d’Europa.

A questo punto perché non puntare sulle nostre comunità piccole, adattabili e flessibili, capovolgendo l’assunto esplicitato dall’assessore Paci sulla inevitabilità di servizi da concentrare tutti nei luoghi a maggior numero di abitanti? Perché non riconoscere gli innegabili vantaggi di qualità della vita sociale dei piccoli centri e investire decentrando le competenze e le risorse direttamente ai comuni? Sono i comuni gli enti che hanno più di tutti diretto contatto con i cittadini e gli unici ancora capaci di contrastare anche lo scollamento tra cittadini, Regione e Stato.

Ci rimane il dubbio più grande: se sia giusto continuare a farci accompagnare da uno Stato e un’Europa grandi che disprezzano il nostro essere pochi e piccoli.