(Pro lèghere s’artìculu in sardu pùnghere subra sa bandera in artu)

Nello sviluppare alcune personali considerazioni sul tema della autodeterminazione in Sardegna, devo fare una doverosa premessa, che rappresenta – di fatto – una confessione: tendenzialmente odio tutti gli”isti” e gli “ismi” e, dunque, anche su questo tema mi chiudo inconsciamente a riccio quando inizio a leggere troppi autonomisti, sovranisti, sardismo, indipendentismo e/o separatismo.

All’interno di questa area ideologica regionale, sicuramente con mia imperdonabile faciloneria, ho sempre identificato alcuni movimenti che vivono di mera teoria e non hanno mai avuto un respiro, neppure potenzialmente, governativo e dunque di concreto cambiamento; sono altresì facilmente individuabili altri partiti-ini che, con lo sbiadito sfondo della battaglia sardista, hanno invece un respiro esclusivamente governativo e, dunque, negli ultimi venti anni hanno ondeggiato, ora a sinistra ora a destra, al tranquillo spirto del vento delle poltrone e sottopoltrone.

L’unica esperienza in tema di autodeterminazione che, negli ultimi anni, a mio avviso, si sia presentata agli elettori con il biglietto da visita della autodeterminazione ma anche con un programma sufficientemente concreto di governo e di reale cambiamento nella offerta politica, è stata quella di Michela Murgia.

Al riguardo, ho letto in proposito delle critiche che reputo ingenerose, basate più che altro sul concetto, tutt’altro che nuovo per la verità, del “guai ai vinti”.

In buona sostanza, prendendo atto che, sulla base di una legge elettorale iniqua, la valanga di voti della Murgia non sia stata sufficiente nemmeno per farle fare ingresso nel Consiglio Regionale, il pensiero espresso da molti è stato: ma dove pensava di andare? Ma chi si credeva di essere? Pensava davvero di riuscire ad andare al governo della Sardegna parlando di autodeterminazione e svincolandosi dai partiti e dalle clientele tradizionali?

Io credo invece che una esperienza che ha comunque ottenuto un patrimonio autentico, e trasversale, di voti sani e non clientelari non debba andare cestinata e abbandonata in ragione esclusiva di un esito elettorale apparentemente negativo.

Al contrario, il concetto di autodeterminazione quale substrato di una nuova idea politica per la Sardegna non dovrebbe essere disperso ma, anzi, coltivato e valorizzato.

L’argomento che maggiormente mi vede d’accordo con il principio di autodeterminazione è il seguente: sinistra e destra hanno fallito in tutte le esperienze governative in Sardegna di questi ultimi 20 anni.

Entrambe, con i loro carrozzoni di clientele, di cambiali che devono essere pagate per intere legislature, di vincoli inconfessabili ma comunque ineliminabili con i vertici nazionali e con consorterie occulte e trasversali, hanno dimostrato di non avere al loro interno capacità progettuali ed operative necessarie per affrontare la crisi ed invertire il declino né, tantomeno, di agire nell’unico interesse della Sardegna.

Attenzione: non è un problema di trovare nomi nuovi o effettuare accurati lifting ad altri più datati.

Il problema principale è dato proprio dal fatto che, chiunque sia stato messo momentaneamente a governare la Sardegna, con alle spalle le citate logiche partitiche, altro non ha potuto fare che piegarsi agli apparati ed alle dinamiche sempre uguali e sempre volte alla tutela di interessi ed affari mai convergenti verso il bene comune.

A questo riguardo, trovo dunque sciocco, fuorviante ed anche inutile pensare, anche solo sognare, che un futuro governo regionale che, da destra o da sinistra, segua i medesimi binari, anche se mascherati con qualche contingente imbellettamento autonomista, possa risollevare le sorti della Sardegna.

E’ però anche impensabile ipotizzare che menti libere e valide presenti nelle diverse fazioni possano confluire in questo o in quello schieramento “nemico”.

Credo invece valga la pena provare a convogliare le persone di buona volontà verso un progetto diverso, avulso e terzo rispetto ai principali partiti, progetto il quale, con il comune denominatore della autodeterminazione e, dunque, con le mani libere da impegni peninsulari, realizzi un programma del fare concreto, con tempistiche certe e controllabili di realizzazione e, soprattutto, che abbia come unica e insuperabile prospettiva il bene della Sardegna e la ritrovata felicità dei Sardi.

Abbiamo infrastrutture obsolete, una burocrazia bizantina che ostacola qualsiasi progresso, una disoccupazione ai massimi ed il conseguente spopolamento delle zone interne.

Sono tutti problemi che si intersecano, la cui risoluzione può e deve procedere congiuntamente, dando spazio ad idee nuove e moderne.

Se crei le infrastrutture e snellisci l’apparato elefantiaco che blocca ogni progettualità, inizi a creare le basi per un incremento del lavoro nelle zone interne ed inverti la tendenza allo spopolamento.

Magari si può provare a ripartire da lì, dalla buona volontà, ingegno e conoscenza del territorio dei tanti buoni sindaci che la Sardegna può vantare, troppo piccoli per suscitare l’ingordigia del Palazzo ma grandi e reali amanti del territorio.

Ho già avuto occasione di esprimere il concetto ma per me, da elettore, non è un problema di nomi o di originaria appartenenza alla destra od alla sinistra.

Si tratta invece di trovare persone che vogliano aderire ad un progetto nel quale l’autodeterminazione non si guardi allo specchio per dirsi quanto è bella e virtuosa ma agisca da stimolo per un governo di unità sarda.

Purtroppo, è successo quello che temevo: mi ero ripromesso di parlare di autodeterminazione e la ho finita invece a sognare sviluppo e benessere per la Sardegna.

Magari, per una volta, qualche anima buona riuscirà a farli diventare sinonimi?