(Pro lèghere s’artìculu in sardu pùnghere subra sa bandera in artu)

Un Fronte Democratico per la Sardegna? Prende quota un dibattito interessante sul perimetro che dovrebbe descrivere l’area del fronte per l’autodeterminazione alle prossime elezioni regionali.

La cosa mi interessa per due motivi. Innanzi tutto perché il dibattito monta fuori controllo dai principali organi in cui storicamente si è formata l’opinione pubblica in Sardegna e cioè sui blog e sui forum messi a disposizione da iniziative di base. Non c’è una regia unica, ma allo stato attuale delle cose ciò può non essere un male. Parafrasando un vecchio adagio potremmo dire: “che sboccino i cento frailes!”.

SardegnaSoprattutto, SardegnaMondo, il blog dell’ex direttore dell’Unione Sarda Anthonymuroni.it, il blog anticolonialista Pesa Sardigna, il blog del Movimento linguistico Limbasarda2.0, sono i punti di riferimento di questo dibattito che sta crescendo di giorno in giorno. E insieme al dibattito in rete si va formando una fitta serie di incontri cara cara sul territorio, di conferenze aperte, di mobilitazioni, di convegni, di confronti sui diversi temi che costituiscono la questione nazionale e sociale sarda.

La seconda cosa che trovo interessante è che inizia a farsi strada l’idea che bisogna costruire una alternitiva al sistema dei partiti centralisti che hanno governato la Sardegna in nome e per conto di interessi non sardi, mettendo finalmente in soffitta la solita vecchia idea di “entrare per cambiare le cose dall’interno” che, a conti fatti, si è rivelata nel migliore dei casi una pia illusione. Sembra la scoperta dell’acqua calda e in parte lo è.

Ma l’acqua calda è un bene prezioso e la sua conquista non è un fatto scontato. Esattamente come non lo è la democrazia e credo che proprio dalla democrazia questo costituente e ancora fluido “fronte dell’autodeterminazione” dovrebbe ripartire. Innanzitutto democrazia contro una riforma elettorale a suo tempo imposta dalla bella accoppiata PD-PDL, escogitata per colpire chiunque non si piegasse al loro duopolio.

Una legge elettorale che tiene fuori chi prende il 10% dei consensi è una legge antidemocratica degna dei sauditi e della Turchia di Erdogan, e del suo superamento per un sistema proporzionale perfetto dobbiamo farne un cavallo di battaglia. Ma la democrazia non possiamo solo pretenderla dagli altri. Non voglio fare dietrologismi e polemiche legate ad un passato politico distante anni luce, ma è un fatto che il fronte dell’autodeterminazione dovrà giocare le sue carte su due fattori finora trascurati: l’unità il più ampia possibile e appunto la democrazia.

Unità perché presentarsi frastagliati come alle scorse regionali sarebbe un suicidio politico e significherebbe mettere la parola “fine” all’aspirazione del popolo sardo ad un progetto libero e autodeterminato di società. Democrazia perché con le incoronazioni e le infeudazioni dobbiamo smetterla perché è una strada che non porta a nulla di buono.

Qualcuno parla di “primarie” per scegliere il leader, ma questa semmai è una questione derivata. Quello di cui abbiamo bisogno è rimettere in moto un processo democratico di base, perché senza mobilitazione popolare, senza entusiasmo e partecipazione, ogni coniglietto elettorale che tireremo fuori dal cilindro sarà una soluzione estemporanea, non il cambiamento che ci vuole realmente.

Non ho ricette preconfezionate. Però a vista vedo alcune buone pratiche da cui poter trarre insegnamento e che magari dovrebbero cominciare a comunicare di più e soprattutto in maniera strutturata.

Buona è la pratica di avviare un processo unitario con l’umiltà di lasciare la “janna aberta” e buono è anche scendere in piazza per opporsi al disegno di privatizzazione della sanità coinvolgendo cittadini e personale medico e paramedico, come hanno fatto i promotori dell’alternativa nazionale.

Buono è andare paese per paese a proporre una rete di esperienze in contrasto con l’ottusità accentratrice della Giunta Pigliaru, società civile, realtà economiche di base come sta facendo Muroni.

Buono è organizzare una conferenza aperta su un tema di fondamentale importanza come la lingua sarda affinché idee e proposte vengano a contatto, come ha fatto il sociologo Alessandro Mongili.

Buono è continuare a battere sulla lotta ai poligoni come sta facendo l’Assemblea Sarda contro l’occupazione militare promuovendo manifestazioni, atti di disubbidienza civile, dibattiti nelle scuole ed eventi culturali.

Non ho l’anello al naso e so che sarà difficile fare di tante perle un’unica collana, soprattutto se parliamo di una alterativa elettorale per battere lo storico monopolio dei partiti italiani ed invertire il senso di marcia alla politica di rapina, abbandono e degrado che questo ha significato negli ultimi sessant’anni. Però è positivo il fermento in atto e soprattutto è positivo che settori importanti di società sarda, anche molto diversi tra loro, si avvicinino sempre di più ad una idea politica che fa perno sul diritto all’autodeterminazione e all’autogoverno.

Dunque che continuino a sbocciare i cento frailes e lavoriamo serenamente perché il dibattito non si perda in un vacuo quanto sterile confronto accademico. Bisogna strutturare e finalizzare partendo dalla necessità di creare un cordone sanitario verso i partiti che non hanno testa e gambe in Sardegna, sedicenti movimenti antisistema compresi. Di liberatori e promesse dal mare ne abbiamo viste anche troppe negli ultimi cento anni!

Anche la tattica della “contaminazione interna” è fallita miseramente con la giunta Pigliaru e ciò è sotto gli occhi di tutti. Ma attenti anche ai cappelli politici e alle delegittimazioni strumentali. Anni fa ad un incontro ad Iglesias, organizzato dalla Consulta Rivoluzionaria, ebbi una discussione con Gavino Sale che mi è rimasta impressa nella memoria.

All’epoca lui era il leader di IRS e io il portavoce di A Manca pro s’Indipendentzia. Quando lo interpellai per valutare la situazione per poterci coordinare mi chiese: «chi sei? Io rappresento il 5% dei voti. Tu chi rappresenti?». È stato in quel momento che ho capito perché l’indipendentismo non era mai riuscito ad avviare un processo egemone in Sardegna, perché è stato spesso concepito come un patrimonio personale, un brand di proprietà. Su questo la storia ha insegnato ma non ha trovato molti allievi.

Negli anni si sono avvicendati aspiranti piccoli Napoleone che si sono autoincoronati o si sono fatti incoronare con bagni di folla e stuoli di ultras. Nessuno di loro è finito bene e soprattutto non sono finite bene le sigle che li supportavano. Ripetere oggi la stessa solfa, gonfiarsi il petto dall’alto delle proprie autonarrazioni, non è cosa furba. Non credo che attualmente nessuno in Sardegna possa vantare di rappresentare fette consistenti di società.

Il consenso, quello vero, è da costruire e per costruirlo la prima cosa da lasciare a casa è l’arroganza di chi si erge in posizione di superiorità rispetto al lavoro altrui. Credo sia questo il primo errore da non ripetere e se si vuole fare qualche passo avanti costruendo un percorso politico nuovo, abbiamo cioè il dovere di fare rete e di costruire un sistema alternativo. Al sistema di potere fondato sulla dipendenza dobbiamo opporne uno fondato sull’autodeterminazione e sulla democrazia. Credo sia l’ora di rimboccarsi le maniche.