(Pro lèghere s’artìculu in sardu pùnghere subra sa bandera in artu)

Pochi giorni fa il Museo Archeologico Villa Sulcis di Carbonia ha rotto il silenzio che lo vedeva attendere invano risposte dalla Regione riguardo alla chiusura del cantiere del Nuraghe Sirai e al licenziamento dei lavoratori, seguito al termine della convenzione tra la Regione stessa e Ifras. Previsto per questo martedì lo smontaggio della gru.

Suonerebbe un comunicato come tanti, cronache di ordinario degrado dell’Isola dimenticata.

Basterebbe sostituire i nomi, le zone, e il risultato non cambierebbe, esteso di volta in volta per il territorio. E con indolenza volteremmo pagina, con giusto un sospiro o un’imprecazione, sinceri ma di corta memoria. Oggi però facciamo un esperimento. Rimaniamo sul pezzo con uno sforzo di astrazione. Me ne assumo la responsabilità, ospite occasionale in questo angolo di web, conscio del fatto che la politica non sia il mio mestiere, bensì le parole, e pure che chi rinuncia al proprio diritto (e obbligo) di partecipare, a questo giro di boa della contemporaneità sarda, ha davvero tanto da perdere.

Queste righe sono scritte dalla Germania, da un giovane sardo emigrante, di Carbonia, formatosi all’estero, che ha scelto un paese europeo ove vivere e mettere su famiglia. Un sulcitano che durante gli scorsi anni tornava a casa e, nel rettilineo di Via Nazionale, che costeggia la mesa del Monte Sirai, si incantava alla vista della gru: una, la sola, a svettare sul panorama della città del Carbone.

Una sola gru in una città di 36.000 anime; segno di una stasi irreversibile, ma anche di un barlume di speranza. Perché la sola gru su Carbonia sorgeva su un sito vecchio più di tremila anni. Un simbolo, una rivendicazione, un progetto. Un nuraghe da sempre ignorato, maestoso, là accanto ai siti fenici di Sirai, sulla via per Sulci (Sant’Antioco); il sogno di farne zona archeologica diffusa, proprio là, nella città del Carbone, a ridosso delle necrotiche cattedrali del polo industriale di Portovesme. In smacco al destino.

Di quel Sulcis che all’interno della Sardegna stessa sembra essersi guadagnato un nefasto umore nel vocabolario. “Di dove sei?” – “Del Sulcis.” – “Ah…” e vedere abbassare gli occhi dell’interlocutore, come se si stesse dichiarando di provenire da una zona di guerra, dal sito di un disastro ambientale, da una realtà che è destinata a sopravvivere di stenti, che è già morta e ancora non lo sa.

E invece svettava la gru, sul nuraghe, unico cantiere della città. E i lavoratori, ex-operai, riqualificati dal progetto e assunti, giustappunto lavoravano, e non in una sala elettrolisi, ma su pietre antiche, dissotterrate nel presente per fungere da pilastri del futuro. Ecco, tutto finito. Ritorno alla cassaintegrazione.

Come se il problema fosse il mero soldo, e non il lavoro. Lavorare, plasmare la realtà con la propria attività e riscoprire da ciò la propria dignità. Quella del singolo, e singolo più singolo quella di un territorio, di un popolo. Un popolo diviso dalle sue stesse retoriche, chi sta dentro contro chi sta fuori, chi dice indipendenza e chi dice autonomia e chi dice sovranità e chi dice a su corr’e sa furca, vittima del proprio giudizio su se stesso, che impedisce ogni tipo di azione, di intraprendenza.

Mi soffermo sulla retorica che più colpisce la mia generazione: “Te ne sei andato. Che diritto hai di parlare?” Come se andarsene sia facile, una scorciatoia opportunista. E al tempo stesso, da fuori, l’errore di alcuni di guardare a chi è rimasto con pena. E là dove si potrebbe lavorare assieme, ancora dividerci. Come se l’essere in Brisgovia mi renda in questo esatto momento con le parole che scrivo meno partecipe delle sorti della mia terra di chiunque altro che magari ci poggia i piedi sopra ma di pensare la Sardegna, di sognarla, non ha mai iniziato. Perché vittime della Storia, quelle sì, lo siamo tutti allo stesso modo.

Ricorderò sempre l’esame di Storia della Sardegna, all’università di Cagliari. Sull’omonimo tomo di Leopoldo Ortu, dopo una trance di centinaia di pagine dove scoprivo per la prima volta in maniera documentata lo sfacelo del nostro passato recente, arrivai alle chiudende, poi al Novecento, e voltando la pagina… “Toh!”, c’era mio nonno. Si affacciò dalle righe di analisi storiografica e lo vidi, mentre discendeva le montagne di Narcao, diciotto anni e il fuoco della vita negli occhi, con su saccu in spalla, verso la città del Carbone, per cercare fortuna con quel lavoro che ti strappava la vita di dosso, al buio, ma che “pagava bene”. E sapete cosa? Dopo mio nonno c’ero io. Io o chiunque altro che, in un libro sulla storia di un popolo insegnata a questi soltanto giunto all’università, scopriva sgomento che le proprie possibilità di vita, di realizzazione, dipendevano da precise scelte passate, pagina dopo pagina. Allora chiusi il libro, ringraziai e me ne andai il più presto possibile.

Lo feci, perché una terra che in cambio dell’amore che si nutre per essa chiede il sacrificio delle aspirazioni di ogni singolo, forse è una terra per cui non vale la pena lottare. Questa sarebbe la tentazione tuttora: la rabbia. Tanto per chi sta “fuori” quanto per chi è “dentro”, le nostre problematiche affrontate con disillusione, con un “Non potrà mai cambiare”. Ma ogni nazione è in primis una narrazione. E noi ci raccontiamo sempre la stessa storia.

Nella pagina successiva di questa però ci sono i figli, anche il mio. Tedesco, sardo e italiano, crescerà nell’imprescindibile Europa dei popoli, parlerà di nascita due lingue, e guardandolo mi illudo che il mio sacrificio non sia stato vano. Perché ci sono diversi modi di essere sardi, e in questo tempo non per la prima volta ma in maniera sistematica ne stiamo esplorando uno nuovo: quello dello scegliere se riscoprirsi sardi, o meno. Fuori o dentro, spostare il discorso sulla volontà, non certo su retaggi del sangue. Un nuovo piccolo sardo che in tedesco mi chiederà “Babbo, ma perché tu non parli sardo?” E io non potrò che rammaricarmi e dirgli “Perché nessuno me l’ha insegnato. E io non ho protestato.”

E forse questo sardo di domani, con una concezione politica europea e federalista, da adulto guarderà alle sue origini e senza indugio comprenderà che l’unica via per il futuro della terra dei suoi avi non poteva che passare per un cammino di autodeterminazione, di indipendenza di spirito e di governo; e a rivolgersi alle sinistre o alle destre italiche, lui che è cresciuto nel mondo, non ci penserà nemmeno un istante, reputando il solo pensiero un insulto all’intelligenza.

Dal latino intelligere: Inter+lègere, “facoltà che ha l’anima di formarsi delle idee generali, dopo averle criticate e distinte mediante il giudizio”. Come potrebbe una terra governarsi tramite enti nati altrove, che rappresentano i soli interessi di quell’altrove?

Io non sono un politico, non ho soluzioni né le sto offrendo, ma sono pronto a giudicare quelle che mi verranno proposte, e questo è un mio obbligo, a cui non posso più sottrarmi impugnando il fatto che non saranno perfette; altrimenti la mia non sarà più legittima indignazione, ma imperdonabile idiozia. L’obbligo di una persona qualunque che ha soltanto accennato a una storia. È partita da una gru sopra pietre antiche – simbolo di sviluppo più di qualsiasi ciminiera e rivendicazione al diritto di avvelenarci – e passava per un minatore che scendeva dal paese e subiva l’ingiustizia del non sapere chi egli fosse nel grande quadro della Storia.

Ma noi ora sappiamo chi siamo. Non l’abbiamo saputo mai bene come in questo momento storico. La pagina che decideremo di narrare ora sarà quella che i nostri figli vivranno, un domani. Si tratta ora di scegliere. Del coraggio di scegliere.

*scrittore e romanziere

www.andrea-atzori.com