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C’era un signore, non tanto tempo fa, innamorato della poesia. Innamorato della poesia e del suo paese. Un piccolo paese della Barbagia.

Era un maestro, quel signore. Un maestro elementare. Un maestro con la passione per la poesia. E ai suoi alunni insegnava con una passione unica ad amare Leopardi, Foscolo, Ungaretti, Montale.

Ma non gli bastava. Al maestro non bastava. La poesia doveva essere patrimonio di tutti. Non solo degli studenti e dei bambini e delle bambine futuri uomini e donne. Tutti dovevano gioire e amare quei versi universali.

Tutti, ma proprio tutti. Anche gli anziani del paese che avevano al massimo “la terza avviamento” e riuscivano a malapena a firmare qualche documento e comunicavano tra loro con la loro unica lingua: il sardo. Il sardo parlato.

Fu così che quel maestro amante della bellezza e della poesia si è messo di buona lena e ha iniziato a tradurre. A tradurre dall’italiano al sardo. E a leggere ad alta voce, in sardo, le poesie al paese. Perché ogni cuore, ogni anima, si impregnasse di quella magia.

È così “il passero solitario” è diventato “puzone solitariu”, “il sabato del villaggio” una meravigliosa “su sabadu in sas biddas”.

No, questo non è un pezzo che parla di lingua sarda, dell’importanza di conservare e salvare la lingua, ci sono tanti esperti che lo fanno e lo faranno molto meglio della sottoscritta.

Questo è un pezzo che parla di comunità. Un pezzo che, in tempi di egocentrismo sfrenato mette al primo posto l’importanza di condividere con chiunque le cose importanti. E se una cosa è complicata, si rende semplice. Per tutti.

Perché far circolare idee e opinioni ha lo stesso balsamo che ha avuto quella poesia sui vecchi e i bambini.

Perché la poesia se non è di tutti non è poesia. Se della bellezza non ne possiamo godere tutti non c’è bellezza.

Questo è un pezzo che parla di politica, quella politica che mette al centro le persone e i loro bisogni, i loro sogni e le loro aspirazioni.
Stanno costringendo i nostri comuni ad unirsi con modelli ibridi. Costrizioni dall’alto per gestire uniti (e costretti) qualunque cosa: dalle scuole ai vigili. E poi ci uniranno ancora con gli ambiti strategici e ancora col ritorno delle province. Ci uniscono senza Unione.

Ma a noi non servono unioni di comuni. A noi servono unioni di comunità. Di quelle unioni in cui la poesia è patrimonio di tutti. E ci si mette insieme per aiutarsi gli uni con gli altri e non per risparmiare perché qualcuno da un ufficio d’altrove ha deciso che costiamo troppo.