(Per leggere l’articolo in sardo cliccare sulla bandierina in alto)
In queste ore mi è stato chiesto quale dovrebbe essere – secondo la mia opinione di osservatore – il confine di una proposta del fronte dell’autodeterminazione, del buongoverno e della modernizzazione della Sardegna, alternativa a quella dei vecchi Poli italiani, in occasione delle prossime elezioni regionali.
Anzitutto esprimo l’auspicio che il voto si tenga nella sua scadenza naturale, vale a dire a febbraio 2019.
Significherebbe – ed è la cosa più importante e auspicabile – che l’attuale impedimento del presidente Pigliaru verrà superato in tempi brevi e che la coalizione di centrosinistra avrà ritrovato un minimo di slancio, capace di invertire una tendenza che in questo primo triennio di legislatura giudico fortemente negativa.
Tornando alla domanda iniziale, io credo che il fronte dell’autodeterminazione debba finalmente correre per vincere, presentando candidati e programmi credibili. Senza più vocazione alla mera “testimonianza” o alla provocazione fine a se stessa.
C’è lo spazio politico per pensare a una proposta partecipata, a una piattaforma che coinvolga più sardi possibile, se necessario tagliando fuori – almeno in una prima fase – i partiti, specie quelli tradizionali. C’è un mondo che vuole partecipare, che vuol far sentire la propria voce, che vuole raccontare le proprie esperienze e vorrebbe sperimentare ricette nuove. Ci sono tanti giovani che vorrebbero rientrare in Sardegna per contribuire a questa rinascita.
A mio parere questo fronte alternativo deve aprirsi a queste richieste e a queste prospettive, senza paura.
Certo, sarà necessario tracciare dei confini non negoziabili. Credo sia pacifico che porsi in alternativa ai vecchi Poli significhi respingerne le pratiche, le compromissioni, i rapporti malati con una certa economia parassitaria e con le lobby dell’energia e della finanza “creativa”. Credo sia pacifico che al centro dell’azione di questa visione politica alternativa ci sia sempre e solo la Sardegna, pur inserita in un preciso contesto repubblicano ed europeo.
I Poli tradizionali, statene certi, hanno fiutato puzza di bruciato. Si sono accorti che il combinato disposto della loro inadeguatezza e dell’azione culturale di moltissimi di noi ha creato un sentimento nuovo nell’opinione pubblica sarda.
Ecco, dunque, che il Pd riparla di partito federato col nazionale. Ecco, dunque, che si salda l’asse Cabras-Maninchedda. Perché a due politici di così lunga esperienza non è sfuggito che occorrerà spruzzare un po’ di sardismo e sovranismo sull’alleanza di centrosinistra per poter almeno sperare di competere.
Perché tutti gli analisti dicono che più durerà questa Giunta e più basso sarà l’indice di gradimento. Dunque, aspettiamoci di tutto. Anche un candidato-presidente asseritamente indipendentista, pur tendente al “socialismo”.
Dall’altra parte, come acutamente fatto notare da Nicolò Migheli su Sardegna Soprattutto, probabilmente anche la destra non rinuncerà a cavalcare l’onda identitaria. C’è il rischio che lo faccia alla maniera dei “Noi con Salvini” o con le scivolate plurime di qualche esponente di Fdi, Fi e finanche di un consigliere asseritamente sardista sulla questione razziale.
Come nel caso di cui sopra, si tratterebbe solo di furbate contingenti, tendenti a imbrogliare una parte del vasto fronte che, nell’opinione pubblica, si dichiara pronto a prendere in considerazione l’idea di votare per un fronte sardista e alfiere dell’autodeterminazione.
Ecco, dicendo cosa probabilmente faranno sinistra e destra, ho detto implicitamente cosa dovrebbe essere invece – in alternativa – questa nuova alleanza. I valori della giustizia sociale, il dialogo con le imprese, la centralità del lavoro, l’introduzione del concetto di sostenibilità, la valorizzazione di cultura/ambiente/paesaggio come motori di sviluppo, la risoluzione del conflitto centro-periferia con una nuova missione da affidare alla aree rurali e periferiche, il rifiuto di ogni razzismo e di ogni esclusione.
Ci sono un sacco di punti da approfondire, mi rendo conto. Ma credo di essermi dilungato già abbastanza. I prossimi capitoli li lascio scrivere volentieri a chi vorrà raccogliere il testimone in maniera costruttiva. Perche questa altro non potrà essere che una staffetta, senza primedonne ma anche senza succhiaruote.
Chiarissimo, Direttore.
Soprattutto nel porre l’attenzione verso quei partiti tradizionali che, fiutando il nuovo vento, tenteranno di mascherarsi di sardita’ per restare a cavallo degli odiosi privilegi che da sempre hanno contraddistinto il loro modo di fare.
Ottimo articolo!
Un detto sardo recita: «s’istentina s’idede in su furcone»; mi pare che, per i partiti che si sono “spartiti il POTERE” negli ultimi 15, 20 anni, ci sia poco margine per bleffare, e più tenteranno di farlo più sarà chiaro il loro ” tramonto”. Andiamo avanti, perché la Sardegna ha bisogno di esprimere le prprie potenzialità e i valori – non più negoziabili- della propria cultura.
Sono convinto che piu’ del 50% dei sardi e dei residenti in Sardegna sia pronto ad una autodeterminazione. Abbiamo meno di due anni per coagulare idee, progetti, persone che giungano sotto una unica bandiera (sarda) alle elezioni regionali. Per poi staccarci dall’Italia e dai partiti italiani e provare ad autogovernarci con le nostre stesse risorse. Proviamoci, dobbiamo provarci, non abbiamo alternative se vogliamo crescere.
Parlare di autodeterminazione o di indipendentismo, somiglia spesso a una danza rituale. Si fanno, si dicono, si scrivono cose di un certo tipo ma puntualmente quando si arriva al nocciolo del problema, si torna indietro. Neanche con il Monopoli si beccava sempre la carta “torna al via” dal mazzo Imprevisti. Con l’indipendentismo o l’autodeterminazione, invece, sì. E sempre.
Veniamo al dunque. Se per autodeterminazione o per indipendentismo, si parla di qualcosa che poi bisogna andare a presentare ai regnanti a Roma, cappello in mano e genuflessi, la fine può essere sempre e soltanto quella dimostrata con efficacia clamorosa dall’impugnazione della ASE da parte del governo italiano. Faccio notare al riguardo due cose, tra loro collegate. La prima è la desolante Caporetto del PDS, che invece di incazzarsi di brutto s’è lamentato due giorni poi è tornato disciplinatamente nei ranghi della s-giunta regionale. Complimenti per la visione sarda della faccenda. La seconda cosa è la reazione della s-giunta nel suo complesso. Formalmente, anche se nessuno mi leva di testa che il PD sardo non soltanto sapesse dell’impugnazione con largo anticipo ma ci sperasse pure, è stata cassata una iniziativa dell’intero governo sardo. A nessuno scottano le natiche per questa ennesima prevaricazione?
Dunque, tornando al tema. Se per autodeterminarci o avviare un processo di indipendenza, si deve andare a chiedere il permesso a Roma, suggerirei di impiegare il tempo dedicato agli argomenti in oggetto su altre priorità. Passive, magari, tanto cambia poco. L’alternativa? E’ democraticissima, assolutamente non violenta e guai se fosse diversamente: si tratta di scegliere cosa va fatto per la Sardegna E FARLO. A Roma non sta bene? Chissenefrega, si fa comunque.
Naturalmente, adesso arrivano le solite repliche: non si può fare, siamo vincolati dalla Costituzione, non ce lo permettono. Visto? E’ questo il giochetto rituale. Danzare fino a un certo punto, poi si torna al via. Verso una nuova analisi, fatta con le migliori intenzioni si intende, ma pur sempre improduttiva.
La Dichiarazione di Autodeterminazione del Popolo Sardo, che porterà alla Indipendenza statuale, non si chiede allo Stato con Referendum, ma va dichiarata nel momento in cui ci saranno le condizioni oggettive ovvero quando la maggioranza del Popolo sardo si convincerà che é giunto il momento di prendersela. L’Indipendenza Statuale sarà più facile se costruiremo la nostra Indipendenza economica, dove tutto ciò che sta in terra, in mare, nell’aria sarà conseguenza del modo nostro di gestire, dove la natura umana, la flora e la fauna diventano elementi e parametri di un vivere diverso, che non dovrà essere la solita fotocopia di modelli d’importazione, di produzione Italiana o estera, ma un nuovo modo d’intendere la vita, i fenomeni e le attività produttive, le relazioni sociali, il proprio modo di essere e di vestire, in altri termini una rivoluzione sociale a 360°, che diventi stimolante per noi e attrattiva per gli altri.
Il DIRITTO all’ autodeterminazione, deve intendersi come diritto di un POPOLO ad accedere all’ Indipendenza, ma non comporta per se stesso il riconoscimento automatico dei diritti fondamentali dell’individuo, appartenente a un determinato POPOLO. Se UN POPOLO non è libero di autodeterminarsi non è SOVRANO ma schiavo.
Tale approccio preliminare non deve tacere che se:
sul piano teorico questo principio può essere affermato senza eccezioni e in modo indiscriminato;
sul piano pratico la sua realizzazione deve tenere conto di altri valori e principi non meno irrinunciabili sul piano del diritto
internazionale.
Le riflessioni sul termine “POPOLO” sono negli atti di un seminario dell’Unesco tenutosi a Parigi nel 1989. In base ad essi, quando si parla di “popolo”, si fa riferimento ad un gruppo di esseri umani che presenti le seguenti caratteristiche:
a) una tradizione storica comune,
b) un’identità razziale o etnica,
c) un’omogeneità culturale,
d) un’identità linguistica,
e) affinità religiose o ideologiche,
f) legami territoriali,
g) una vita economica comune;
Il gruppo, senza bisogno di essere numericamente considerevole (per esempio,la popolazione di tanti micro-stati europei), deve essere più di una semplice associazione di individui in seno ad uno Stato;
Il gruppo in quanto tale deve desiderare di essere identificato come POPOLO o avere coscienza di essere un POPOLOo – fermo restando che gruppi o membri di questi gruppi (pur condividendo le caratteristiche sopra indicate) possono non avere questa volontà o questa coscienza;
Il gruppo deve avere istituzioni o altri mezzi per esprimere le proprie caratteristiche comuni ed il suo desiderio di identità.
SEMBRANO ESSERCI, AL MOMENTO, CERTE CARATTERISTICHE NEL “popolo” SARDO????