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E’ presumibile che ogni tempo abbia vissuto e patito un senso di smarrimento analogo a quello che si patisce nei tempi odierni. Anche il tempo dei nostri padri, suppongo anche quelli dei nonni e degli altri avi, hanno condiviso questo comune sentire. Forse può risultare agevole trarre la ragione dell’usuale formula ‘perdita di punti di riferimento’ in Thomas Mann, specificamente nel bellissimo tomo dal titolo Doctor Faust.

Anche Roth, nella sua bellissima Cripta dei cappuccini, ha marcato il sentimento di scoramento che impregna i tempi di transizione (talvolta non è necessario rivolgersi alle scienze sociali per aver contezza e cognizione che la percezione crepuscolare della storia è un leit motiv che ha attraversato i tempi, le latitudini e gli spazi).

Niente di nuovo sotto il sole, dunque?

Non sono i riferimenti ai grandi della cultura universale che debbono marcare e dare la cifra dell’odierna sensazione di decadenza. Sarebbe davvero un troppo comodo rifugio affidare le nostre sensazioni a chi ha vissuto in altri tempi e con notevole maestria ha cantato il tramontar del sol.

No! Sotto il sole odierno c’è ben altro.

Non l’usuale, non il banale, non un normale periodo di transizione. Le transizioni hanno sempre – dico e confermo sempre – maturato nel proprio seno risposte e qualità che s’incuneavano e sovrapponevano a quelle avviate al tramontar.

I fattori del senso, i significanti della vita erano in nuce nella decadenza stessa, e la decadenza si presentava non come una dissoluzione, bensì come un’evoluzione dei fattori sociali e psicologici che forniscono sostanza e significato all’esistenza stessa. Per effetto di questo evolversi sociale, non s’avvertiva una cesura netta fra un tempo e l’altro.

La transizione, a parte lo spleen di fondo, che attiene più all’umanità che all’essere sociale dell’uomo, si poneva nel limine fra crepuscolo ed aurora, e la società avvertiva contemporaneamente il tramontare del vetusto senso e l’aurora del nuovo. Fra scoramento e speranza, si muoveva nell’unica direzione concessale dal progredire e dallo scorrere del tempo… ne seguiva la direttrice.

Neppure la Grande Guerra, evento fra gli eventi, poté nulla – allora – contro questo ineluttabile mutar di forme e senso, resi necessari e istituiti proprio dalla e nella trasformazione, dal e nel divenire, dalla e nell’esigenza congenere alla vita di dissolvere e creare: rispettivamente diastole e sistole della vita e della società che vive, rappresentandone, infatti, il respiro: il respiro del NULLA.

I nostri giorni, invece, hanno perso per strada la diastole, sono fermi alla sistole, alla contrazione che scorda e svanisce il moto d’espansione, permanendo, così nella buia via della dissoluzione: un cupio dissolvi. La transizione dei giorni nostri non si porta più appresso il gene del senso e di un significato nuovi. Essendo priva di culla che accolga la nascita di un nuovo senso, niente ha da cullare, nutrire e far crescere, mantenendosi così nel suo status embrionale di transizione inespressa. Che vede il crepuscolo ma non approda all’aurora, pur bramandola.

Niente più ideologie! Ciò che, nel bene e nel male, seppur sovente concepite e coltivate in maniera violenta e del tutto distorta, teneva coese nell’individuo la brama di conseguire un repentino mutamento di forme e la spinta motivata all’azione, che di questo struggimento è, appunto, l’effetto più naturale. Eppure, nel passato, furono proprio le ideologie a dischiudere un orizzonte cui confidare e credere, e tanti, tantissimi, piuttosto che lasciarsi uccidere dalla verità del nulla, che si apre alla noia, pretendendola e istituendola, in questo orizzonte ideologizzato hanno investito, come si può investire in un amore.

E quando l’idea o l’amore, tramontando, tradiscono, naturale è il vuoto che si espande, cacciando via il senso, ed è allora consueto che la verità del non sense ecceda nel suicidio… come sempre è stato.

Sono, questi, tempi che si consumano in fretta, e di corsa corrodono e dissipano ogni ricchezza umana, soprattutto le relazioni, i momenti d’incontro. Ne sono esempio eclatante l’uso compulsivo di chat e forum… di Internet in generale, della tecnologia, che usa l’uomo, che s’impossessa delle coscienze e s’installa nell’animo, svuotandolo d’ogni altro contenuto… sia esso il sentimento, vuoi pure le emozioni.

Le stesse che nascono dall’incontro di donne e uomini veri, fatti di carne, di ossa, di paure e gioie e di sentimenti ed emozioni. Emozioni che non si esauriscano nel breve arco di tempo concesso da una fugace scopata: veloce, clandestina, nel corso della quale forse neppure il nome dei partner è mai pronunciato, perché non è elemento essenziale dell’effimero e transeunte piacere, che mai si traduce in emozione che arricchisce l’animo.

L’eccessivo utilizzo di ‘k’ e i flash da pixel, sono sintomo evidente che l’utilitarismo si riverbera e manifesta in ogni particella della nostra esistenza quotidiana. Anche nel linguaggio, il quale, per molti, non è più uno strumento di comunicazione, cioè di unione, anche momentanea, che deve quindi trasmettere per ricevere.

Oggi il linguaggio, sempre più povero e scarno, non comunica, se non la superficie, rifiutando di porsi al servizio del profondo, dell’anima, del sentimento. Il linguaggio asservito alla tecnologia chiede, domanda, pretende… non è più comunicativo.

La transizione che viviamo è uno stare, non un andare, è cioè un qualcosa che non va oltre, che non si apre a nuove proposte e scoperte, che surroghino fede e idee, che, nel bene e nel male, hanno rappresentato il punto di riferimento di tantissimi giovani negli anni scorsi.

Un tempo ci si uccideva per un’idea – certo, mal interpretata -. Si era però disposti alla manganellata pur di affermare un’idea, un proprio punto di vista, seppure attinto acriticamente; oggi è la noia – non lo spleen, che è altra cosa, Baudelaire non è passato invano – ad uccidere, a muovere l’azione, a costringere l’esistenza di troppi ragazzi e ragazze, disposti a buttar via la propria gioventù nel vano inseguimento del troppo facile piacere di un attimo che ottunde il vuoto che li/ci abita.

Piaceri veloci che, proprio perché troppo facili e a portata di mano, non richiedono un investimento di energie, di sentimento, non impegnano la persona, il suo intimo, ma solo l’epidermide. Superficie che è espressa anche dall’eccesso di ‘k’, utili per volere, pretendere, ottenere… mai per dare qualcosa, per uno scambio.

La transizione appare come un mastodonte che goffamente si muove nel pantano della tecnica, ed in esso resta imprigionato. Una tecnica che promette il paradiso oramai disabitato dall’ideologia, il cui tramonto ha svelato l’effimera illusione del farmaco contro il nulla che si espande.

Paradiso sempre più disabitato anche a seguito della rinuncia e del rifiuto dell’eterna, irrisolta promessa della fede. Il paradiso della tecnica è freddo come il metallo e la plastica che utilizza per proporsi; effimero e falso come la pubblicità che la propone.

L’abbondanza di modi e mezzi di comunicazione ha ottuso la propensione a comunicare; l’enorme disponibilità di piaceri ha offuscato la gioia e il piacere all’incontro vero; l’emozione pret a porter ha reso inutile e vano l’investimento emotivo; la spiritualità da banco ha intristito e impoverito l’anima degli uomini, svuotandola della speranza, promettendo in cambio una conoscenza impossibile e la futile coscienza del Sé Superiore; l’io è diventato Dio, e la solitudine colloquia solo con le altre solitudini di cui si circonda, divenendo l’ambito e l’area entro cui, monadi, muoviamo i nostri passi.

L’incontro fra persone sempre meno si coniuga nel sentimento o nell’emozione. Sempre meno si apre all’impegno, all’investimento emozionale. Sempre più assomiglia a un cleanex: lo si usa, lo si getta via, non lascia tracce.

Tutto, oramai, è votato all’utile, al consumo: l’uomo e la donna consumano un rapporto sessuale, non fanno più l’amore, perché anche il verbo amare, usato ed abusato, si è svuotato di senso. L’amicizia è solo uno stare insieme, un fare le cose insieme, affinché le reciproche intime solitudini non emergano, facendo così udire l’eco della voce del vuoto che si spande nel nulla.

La tecnologia ha ucciso anche la bellissima illusione dell’amore fra umani, quelle dell’ideologia e della fede sono tramontate da tempo, da molto, troppo tempo.

Certo! Non tutto è così bigio e oscuro. So bene che resistono enclave d’umanità, ma si tratta appunto sempre più d’enclave, dove la norma dei nostri nonni è diventata eroismo. Un detto popolare – mutuato dal celeberrimo moto di Brecht -, dipinto sul muro di un’abitazione in un paesino del centro della Sardegna recita: beato il popolo che non ha bisogno d’eroi: in questo detto c’è davvero tantissima saggezza. L’area del senso s’assottiglia sempre più, indietreggia al cospetto del miasmatico sentore del nulla.

Come non atterrire, non essere sgomenti di fronte alle confessioni d’efferati delitti: perché? (la domanda); non so! (la risposta). Ebbene, non mentono: la noia agisce ed opera senza offrire un senso, senza un vero perché. Talvolta s’incappa in un’improvvisa e inattesa sincerità: per vincere la noia!

E’ questa la novità, la vera cesura fra le altre transizioni e quella presente. Neppure si odia; sempre più di frequente l’azione è priva di movente: non il furto, né la ricchezza o il potere; non un’idea da dover essere affermata anche con il ricorso alla forza, neppure l’odio… ma solo un ‘non so’ e tanta noia da vincere. Un gioco, ed è così! E’ l’eterno gioco del nulla, che si esprime proprio in noia, in ‘non so’, in nulla: uniche vere vesti che il nulla sa e può indossare… il resto è belletto, maschera.

Il nulla oggi è nudo!

In altri tempi, neppure troppo lontani per non averne più memoria diretta, la transizione nasceva dal sapore e dal colore del crepuscolo, e si protendeva ad ammirare il colore e presagiva il calore dell’aurora. Entrambi ben presenti, in nuce, nel tramonto. Il Medioevo si tuffava nell’Umanesimo, il quale annunciava il Rinascimento, che era seguito dall’Illuminismo – grande e fervente fucina di controverse ideologie -. All’Illuminismo fece seguito il Romanticismo, poi il decadentismo, con tutta la cultura che ne cadenzava il passo. Il XX° secolo s’apriva segnato da un evento cruento, controbilanciato, però, dalla speranza, sicuramente anche frivola, della belle epoque.

La Grande Guerra nutriva ed era nutrita dall’irredentismo. Il ventennio era il falso riscatto (creduto vero). La successiva tragica guerra si radicava in nuove attese per l’uomo, sfociate In seguito anche nella Carta universale dei diritti dell’uomo; fino a giungere ai giorni nostri, fra alti e bassi, scoramenti, paure e rinnovate speranze. Probabile che nel fondo della cornucopia domani scoveremo l’ennesima, immarcescibile, futile e transeunte nuova illusione che dissimuli la verità del nulla.

Ma oggi qual è il nostro orizzonte? E’ un futuro in mano alla tecnica! Morto Dio – oramai quasi sotterrato, soprattutto dalla Chiesa -, tramontate le illusorie ideologie, qual è la nuova futura illusione che possa riuscire a dissimulare la verità del nulla e del non senso? Resta solo un’amara constatazione: forse i giovani d’oggi sono soltanto più sinceri, mostrano senza infingimenti la nudità del nulla, e di questa essenza oscura sono appunto l’espressione più consona e genuina.

Nessun pianto da parte mia, solo un’amara constatazione.

La verità, quando si mostra nuda e cruda, intrisa dei suoi miasmatici odori e foschi colori, atterrisce e sgomenta. La società odierna registra nella cultura proprio questo sgomento.