Come ormai tutti si sono resi conto, quello bocciato sonoramente dagli italiani è stato un progetto di riforma complessivamente sbagliato, sia nel metodo che nel merito.

Nel metodo perché di parte e divisivo esattamente come lo era stata quello berlusconiano del 2006, che non a caso era stata sonoramente bocciato con percentuali curiosamente quasi identiche (61,29%

contro il 59,11% di quello tenutosi pochi giorni fa). La Costituzione, in quanto carta fondamentale che disciplina non solo il funzionamento delle istituzioni basilari della Repubblica, ma anche i diritti e doveri di ciascuno (indipendentemente dalle opinioni politiche, dalla lingua o da qualsiasi altra peculiarità personale o di gruppo) è valutata infatti dalla maggior parte dei cittadini italiani come certamente modificabile, ma a condizione che lo sia sulla base di valori largamente condivisi o perlomeno, come avvenne a suo tempo in sede di assemblea costituente, sulla base di un “gentlemen’s agreement” (quindi di un compromesso tra chi, anche riconoscendosi in valori e visioni del mondo anche profondamente diversi riesce, nell’interesse generale, a individuare con l’avversario un efficace punto di incontro e mediazione).

Sempre con riferimento al metodo è poi stato decisivo l’errore strategico e di comunicazione, sicuramente clamoroso per un uomo di grande intelligenza e scaltrezza qual è Renzi, di aver voluto a tutti i costi personalizzare (legandolo al suo ruolo di capo dell’esecutivo oltreché alla sua leadership politica nel partito di maggioranza relativa) un referendum il cui esito era già previsto sarebbe stato largamente incerto.

Per quanto riguarda il merito della riforma questa è stata semplicemente percepita dagli elettori come parziale, abborracciata, peggiorativa dell’esistente, centralista, oltreché giuridicamente controversa.
Come ci si poteva quindi aspettare un esito diverso se per stessa ammissione del “primo ministro” (secondo il quale una brutta riforma era meglio che non averne nessuna) queste erano le premesse?

C’è però un dato che mi preme sottolineare: diversi analisti e commentatori hanno sostenuto che la vittoria del No sarebbe stato il successo dell’Italia conservatrice, timorosa di qualsiasi cambiamento. Io sono assolutamente persuaso del contrario: a mio avviso si trattato infatti in grandissima parte di un voto antisistema.

Lo dimostra il rapporto inversamente proporzionale tra età anagrafica e propensione a rigettare la riforma: coerentemente con un noto aforisma secondo il quale “chi nasce incendiario muore pompiere” tra gli over 65 ha prevalso il Si mentre i giovani l’hanno sonoramente bocciata, forse proprio perché in grado di percepire più delle persone via via più âgés oltre a tutto il resto anche la sua inconsistenza e quindi l’inadeguatezza rispetto alle loro reali aspettative.

Il secondo motivo è invece legato al rapporto tra fedeltà elettorale e voto referendario: secondo i dati dell’istituto Cattaneo una percentuale bulgara (circa il 90%) tra gli elettori grillini è stata fedele alle indicazioni del loro “non partito” di riferimento e altrettanto dicasi per quelli della lega Nord, che è l’altro movimento la cui base è storicamente ostile nei confronti dell’ordinamento statuale esistente.

L’indicazione degli elettori è stata quindi non già quella di non volere alcuna riforma, ma più semplicemente di non volerne una limitata, brutta e di parte, essendo di gran lunga preferibile una ridefinizione complessiva e autenticamente coraggiosa delle istituzioni, capace quindi di incidere sia sulla forma di Stato che su quella di governo, ad una condizione: che sia realmente condivisa in quanto tutti alla fine dovranno riconoscersi in essa.

Ma se veramente si vuole questo l’unica strada percorribile non può che essere quella di istituire un organo costituzionale provvisorio, eletto con sistema proporzionale e che lavori per un tempo predeterminato, capace di operare parallelamente alle due camere e a cui affidare il compito di riformare la seconda parte della Costituzione (oltreché di effettuare alcuni limitati ma doverosi aggiornamenti della prima).

Se tutto questo avvenisse sarebbe l’occasione d’oro perché anche il popolo sardo si doti di un organismo con caratteristiche analoghe, da istituire anch’esso con legge costituzionale, a cui affidare il compito di riscrivere da cima a fondo uno Statuto speciale di ormai imbarazzante anacronismo, oltreché di debolissima autonomia, avendo come modello quelli più avanzati dell’UE. Mi riferisco in particolare ad una regione-nazione a cui siamo affini per storia, lingua e prossimità geografica: la Catalogna.

Tenendo poi conto che i gli elettori sardi hanno già espresso il loro appoggio a questa ipotesi rispondendo ad uno specifico quesito che era stato incluso tra i 10 referendum anticasta votati nel 2012, sarebbe una buona occasione quella di aprire un confronto per valutarne tutti insieme (classe politica, istituzioni, rappresentanti della società civile, semplici cittadini) prima di tutto l’opportunità e la fattibilità per poi decidere eventualmente i passi successivi.