Il dibattito delle idee sulle condizioni della Sardegna attuale non è da intendere come un modo di pensare e ragionare “consolatorio”, ma potrà superare questa fase, se favorirà l’agire e il creare una società nuova, la quale si realizza e si manifesta come espressione di tutti i soggetti che la compongono in posizione di protagonisti attivi e costruttori di una realtà sociale alternativa a quella presente.

Che inizierà a mutare radicalmente se in prima fase si avrà anche un linguaggio come visione della politica in prospettiva futura, come faro che indica e guida un progetto di forte rottura con il nostro oggi, dominato dal capitalismo finanziario e dai gruppi di potere ad esso collegati.

Nello Stato democratico i costruttori di opinioni spesso hanno fatto ricorso alle sintesi “paese legale” e “paese reale”; questi due asserzioni emergono soprattutto nei momenti di forte crisi, di forte contrasto tra chi esercita il potere della politica e la società delle persone comuni che è contrassegnata dai problemi non risolti.

Al mondo del “paese legale” sono riconducibili termini che in questo periodo imperano nel linguaggio politico dominante: nel dizionario corrente ricorrono nei mezzi di comunicazione termini come rigore e austerità, parole che si abbinano sempre al taglio della spesa pubblica ed agli eccessi nei costi del diritto alla salute dei cittadini.

Le ricadute sul piano sociale del significato di queste parole sono sotto gli occhi delle fasce sociali relegate a vivere in perenne sofferenza e privazione. Mentre impera questo linguaggio, vengono messe da parte parole come sussidiarietà, che non ha nulla da spartire con l’assistenzialismo fine a se stesso, e federalismo che occorre reinterpretare con l’azione di movimenti di massa.

La nobiltà di quest’ultimo termine consiste nella finalità che il pensiero federalista tende a raggiungere con il rispetto delle opportunità e della dignità reciproca, avversa al dispotismo imperioso della finanza fine a se stessa, che non tiene conto dei bisogni del “paese reale”.

In Sardegna questa frattura è stata sempre presente, se per “paese reale” si intende quel complesso di problemi sociali, mai interpretati con linguaggio proprio e portati a soluzione all’interno dell’attuale sistema istituzionale che ha regolato i rapporti tra la Sardegna e l’Italia.

Resta perciò da capire che è inevitabile, come di fatto lo è, il rovesciamento dell’attuale rapporto, che fino ad ora si è realizzato in una logica di dipendenza economica e istituzionale tra la Sardegna, l’Italia ed il resto dell’Europa.

Resta perciò da evidenziare la consapevolezza che il linguaggio che attiene al pensiero autonomistico è in piena crisi di significato e non appare valido per interpretare la realtà Sarda, la sua perenne dipendenza dal potere esterno e il bisogno del mutamento in positivo.

Un nuovo linguaggio per il protagonismo dei sardi
C’è da chiedersi, quindi, se la strada del vecchio autonomismo sia da mantenere in vista di un balzo in avanti totale e radicale, o se vi è l’urgenza di prospettare una nuova via, un nuovo linguaggio che faccia emergere il protagonismo dei sardi con una forma istituzionale altra, e in linea con il bisogno di protagonismo, ma riconosciuta dentro un rapporto democratico tra zone marginali con Istituzioni egemoni proprie e il Centro del potere istituzionale esterno alla nostra Isola.

In merito a questa considerazione il rilancio del pensiero federalista, con la condivisione attiva del movimento collettivo, potrà dare buoni frutti. E’ noto agli storici che in altri contesti geografici e tempi storici differenti da quelli odierni, i rovesciamenti istituzionali sono avvenuti con le rivoluzioni violente: è questo il caso delle monarchie assolute e delle dittature che sono state spodestate e abbattute dai movimenti politici con le rivoluzioni per affermare i diritti individuali.

Ma negli Stati democratici, che riconoscono le libertà individuali, il superamento della Sovranità totalizzante in mano allo Stato, che si estende su tutti i territori, anche su quelli occupati dalle minoranze linguistiche ed etniche, è possibile anche con metodi pacifici. Ma il procedere su questa via richiede una Soggettività alta del popolo che la rivendica e della classe politica che ne esprima la volontà.

In assenza di tutto ciò il processo di concentrazione del potere sovrano nello Stato accentratore sarà inevitabile ed una chimera il progetto politico di sottrazione di Sovranità con nuovi poteri più forti e strutture istituzionali a favore delle aree con minoranze linguistiche.

Il pensiero degli autonomisti e la pratica dell’autonomia in Sardegna sulla base dello Statuto speciale ha evidenziato tutti i suoi limiti per effetto di un’esperienza amministrativa e istituzionale subalterna agli indirizzi dello Stato centrale e del grande capitale pubblico e privato.

L’autonomia come autogoverno del territorio sardo è stato solo un principio astratto in quanto i poteri reali sono rimasti in mano allo Stato, anche se con l’articolazione in comuni, province e regioni si è avviato un processo di decentramento di poteri. Tuttavia l’essenza del Potere è rimasta in mano allo Stato.