Adesso lo so come andrà a finire. Che diranno che ho fatto l’elogio alla dittatura e al mio tempo andato. E forse è anche vero, com’ è vero che preferisco la democrazia e che la prima volta fu un flash.

Era marzo del 1998, credo: avevo ventinove anni, ero cronista di secondo pelo e non portavo addosso i segni del pregiudizio.

Se penso a quella Cuba mi vengono in mente le iguane sul davanzale, lo smog nel centro storico dell’Avana e un botto di altre cose ancora. Suoni, sapori, luci, umanità.

Ma soprattutto la dignità della Rivoluzione, ripetuta nelle piazza, rimbalzata sui nomi delle strade, spammata sulle targhe. Immanente. Ovunque. La dignità della Rivoluzione è quella cosa che ho respirato solo tra i cubani per cui tu puoi essere anche povero ma siccome vivi e sorridi vuol dire che sei libero. E diventi pure contagioso.

Io Fidel l’ho visto una volta sola. E pure a distanza, saranno stati trenta metri. Mi è bastato anche se avrei voluto cenare con lui e parlarci non del tempo che fa. Accompagnavo a spese mie Luigi Cogodi, assessore regionale e prima di tutto amico.

I compagni poliziotti, al volante di una sottospecie di Fiat 124, cordiali ma senza allargarsi, ci avevano preso in consegna in hotel e accompagnati sino alla tribuna. Era una domenica mattina, poco fuori della capitale. Credo fosse una mirabolante festa scolastica, certo era una cosa gigantesca sotto un sole feroce.

Il ricordo è sbiadito ma Castro, dritto come un fuso, lungo come una canna di fiume, avrà parlato tre ore.

Confesso: ho faticato e non poco. A boccidura. Era retorico, anche lui, come deve esserlo ogni dittatore. E mi sembrava già affaticato.

Però esprimeva davvero, con le parole, i gesti larghi e composti, fermi, il senso della dignità del popolo cubano. Il valore della Rivoluzione, appunto. La sfida agli Stati Uniti, che avevano ridotto l’isola a terreno di caccia. La sfida vinta.

Però il malumore tra i giovani serpeggiava. Anche senza internet, che lì manco sapevano cosa fosse. E la fatica stava già fiaccando la gente e perfino quelli che la Rivoluzione l’avevano vissuta da campesinos e la portavano dentro come un marchio di fabbrica. Anche loro quando ci parlavi capivi che doveva essere dura.

Ma bastava guardare, osservare, per capire la differenza tra il poco, a disposizione di noi turisti col dollaro in tasca, e il pochissimo, riservato a loro. Ricordo un pomeriggio in visita alla redazione del Granma, l’unico quotidiano: la delicatezza della conversazione con i colleghi che già si sentivano eroi tirando a piano un foglio in bianco e nero, testata rossa, diviso in quattro facciate.

Era retorico e disperatamente costretto alla retorica il Castro che ho sentito io. Non l’eroe dell’assalto fallito alla caserma Moncada, della prigionia con Che Guevara e della historia me absolverá. Un signore di una certa età consapevole del suo ruolo.

Ma era un monumento vivente e parlava alla gente che aveva liberato dall’oppressione. I bambini lo seguivano, ordinati, sorridenti, costretti come tutti i bambini alle parate dei grandi. Ma certo non potevano capire sino in fondo la grandezza della persona. Non un Mattarella qualsiasi.

Cuba usciva dal “período especial”, chiamato così per le ulteriori restrizioni imposte da Fidel per tentare di arginare gli effetti dell’embargo più lungo che l’umanità ricordi.

E per continuare a garantire los derechos, cioè la sanità pubblica, l’istruzione pubblica e un’idea di impiego per tutti, i sacrifici erano davvero notevoli. Cuba era socialista ma soprattutto era antiamericana.

Già da allora qualcuno partiva, gli esuli anticastristi che fuggivano: balseros che affrontavano le poche miglia che separano Miami da Cuba e che oggi, sbaglierò ma non credo, non festeggiano. Perché Fidel, anche per chi a Cuba chiedeva diritti civili ed elezioni, era comunque un parente stretto.

E i parenti non ti andranno tutti a genio ma sono un pezzo di te. Soprattutto quelli che si sono distinti, eccome se si sono distinti. L’America si poteva guardare dal Malecón, come dall’Albania il quegli stessi anni si affacciavano sull’Adriatico per guardare l’America chiamata Italia.

Era soltanto voglia di fuggire, il disperato desiderio di trucchi, jeans. La libertà vista da un’altra prospettiva.

E’ iniziato così il mio periodo cubano. Luigi Cogodi, un uomo di utopia e di concretezza e di tante altre cose insieme che se non avete conosciuto non starò a raccontarvi, Luigi mi aveva coinvolto nella nascita di Issiam, un istituto di cooperazione e sviluppo tra la Sardegna e l’America Latina.

Quindi Cuba, più volte. E poi Argentina. Non ero il solo e chi c’era allora – nessuno si è perso – ha incisi quegli anni importanti e quel clima di costruzione politica. Che ha dato molto a molti di noi e alla Sardegna ha regalato leggi importanti come il piano straordinario per il lavoro. Ma questa è già un’altra storia, fatta anche di occasioni mancate e delle solite umane miserie.

Resta il valore della Rivoluzione. Inebriante come l’ossigeno sopra i tremila metri. Respirato a pieni polmoni. Capace di cambiarmi.