Quello del pareggio di bilancio è un concetto difficile da definire con esattezza: ad esempio, è cosa assai diversa pensarlo semplicemente come la differenza fra entrate e uscite in un determinato anno o, invece, in rapporto al Pil nazionale o, ancora, ai trend storici del debito pubblico nel Paese in questione.

Il suo valore assoluto, e percentuale rispetto al Pil, varia inoltre a seconda che vi si includano o meno gli interessi pagati da una data nazione sul proprio debito. Il fatto poi che sia calcolato su base annuale è il risultato di una convenzione del tutto artificiale, che ha scarsa valenza scientifica, giacché l’economia segue cicli generalmente assai più lunghi, e molto più variabili, di dodici mesi.

La sensatezza del pareggio di bilancio come obiettivo politico dipende quindi tutta dall’interpretazione che si dà di questo concetto e dalle circostanze.

“In generale, un bilancio primario (che non include gli interessi sul debito) ‘equilibrato’ o ‘responsabile’ è una buona idea in un Paese che ha una propria moneta e un rapporto accettabile tra debito e Pil (o ancor meglio tra debito e ricchezza nazionale), e la cui economia cresce al proprio tasso naturale, ma non di più e non di meno – dice Richard Kogan, del Center on budget and policy priorities – Altrimenti, le autorità fiscali e monetarie devono essere in grado di spingere sull’acceleratore quando l’automobile procede troppo lentamente e frenare quando corre troppo”.

Ma intervenire prontamente sull’economia, per farla crescere quando in difficoltà e per tenerla sotto controllo, in modo da contenere le conseguenti pressioni inflazionistiche quando invece è in fase di espansione, non è cosa facile.

“La questione di fondo è chiara: come gli esempi della Grande Depressione, e più recentemente della Grecia, dimostrano, l’austerità nel momento sbagliato, o troppo aggressiva, può far esplodere la disoccupazione, far contrarre l’economia e far aumentare il debito in rapporto al Pil anche quando il bilancio è in pareggio o addirittura in positivo – dice Kogan – In tali circostanze, l’obiettivo di pareggiare il bilancio è disastroso”.

Se il pareggio di bilancio è un campo minato già a livello economico, il desiderio di renderlo un obbligo costituzionale per i governanti di un Paese è secondo alcuni ancor più folle, per svariate ragioni.

L’economista indipendente Bruce Bartlett ne ha analizzato una fondamentale in un paper pubblicato nel luglio del 2011, al picco del dibattito a Washington su una proposta repubblicana di bloccare la spesa federale al 18% del Pil dell’anno fiscale precedente.

“Usare il Pil per calcolare il massimo livello di spesa possibile è completamente inappropriato – scrive Bartlett – in particolare per un emendamento costituzionale, perché il termine [Pil] non è definito legalmente da nessuna parte, e non potrebbe nemmeno esserlo perché viene continuamente rivisto per ragioni sia tecniche sia concettuali”.

In sostanza il Pil è una misura economica prodotta grazie all’aggregazione di una grande quantità di dati, la cui selezione e interpretazione varia a seconda di come varia il consenso tra gli esperti di statistica.

Non si capisce bene su quale base si dovrebbe decidere a che livello esattamente bloccare il rapporto tra entrate e uscite per garantire il pareggio di bilancio.

Sulla media degli ultimi cinque anni, o degli ultimi quattro decenni, o sulle previsioni per l’anno in corso? Il 18% del Pil proposto dai repubblicani quattro anni fa è un numero del tutto arbitrario e serve solo, nel lungo periodo, ad assicurare ai conservatori che si prosciughino i finanziamenti alle pensioni e alla sanità.

Nel caso italiano, va detto che il linguaggio vago impiegato nell’Articolo 81, in cui si dichiara che “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico,” e che “il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico”, può aiutare a mitigare alcuni di questi problemi.

*intervento pubblicato il 21 settembre 2015 sul giornale dell’Università degli Studi di Padova