Ricordo ancora con chiarezza quel tardo pomeriggio del 19 aprile 2005 quando, di ritorno da un oliveto di famiglia accesi l’autoradio, trepidante dalla voglia di conoscere l’esito degli scrutini che da appena un giorno stavano avendo luogo all’interno della cappella Sistina ed il cui esito sarebbe stato quello dell’elezione del successore di Pietro dopo la dipartita dell’amatissimo Karol Wojtyla.

Essendo passato solo un giorno dall’”extra omnes”, nessuno si aspettava un’elezione lampo e fu quindi grande la mia sorpresa quando dagli altoparlanti dell’auto si appalesò improvvisa una voce dal marcato accento bavarese: quella inconfondibile del sino ad allora inflessibile e temutissimo prefetto dell’ex Sant’Ufizio Josef Ratzinger che a Roma si era appena affacciato timidamente dal balcone della loggia.

A dominare in me in quel momento furono i sentimenti di incredulità, delusione e sconcerto e a quanto pare non fui il solo ad averli vissuti, dato che la scrittrice liberal Michela Murgia testimoniò qualche tempo fa di aver vissuto un’esperienza del tutto analoga.

In questo ambito le mie affinità con la talentuosa artista cabrarese finiscono però qui. Anzi, finirono più precisamente una domenica del 2008 quando, spinto da curiosità intellettuale mista a scetticismo, in un periodo in cui la mia fede cattolica era decisamente appannata (esperienza d’altronde tristemente comune di questi tempi, specie tra le nuove generazioni), varcai per la prima volta la soglia della basilica di Santa Croce in Castello.

Qualche giorno prima mi ero infatti imbattuto casualmente, durante una delle mie pigre e inconcludenti navigazioni in rete, nella notizia che in città da qualche settimana veniva celebrata quella che il Papa aveva deciso di definire motu proprio come “forma straordinaria del rito romano”, ma che sino ad allora era nota ai più semplicemente (e in modo evidentemente grossolano) come messa in latino.

Il primo impatto fu quello di spaesamento, tuttavia la curiosità mi spinse a tornare anche la domenica successiva e cominciò a trasformarsi in attenzione partecipata e questa quindi, gradualmente, in interesse vivo per una parte della storia della cristianità da cui ero stato lasciato sostanzialmente all’oscuro sino ad allora.

In essa i parametri liturgici a cui dalla più tenera età ero stato mio malgrado assuefatto apparivano stravolti: qui il sacerdote manteneva infatti la stessa prospettiva dei fedeli con il suo sguardo rivolto “coram Deo” (cioè simbolicamente a quell’oriente mistico rappresentato visivamente dal tabernacolo sormontato dal Crocifisso), in modo tale da rendere tutti i presenti consci che quello che stava avendo luogo è un vero sacrificio eucaristico, ancorchè incruento, e chi è protagonista unico dello stesso.

L’uso della lingua latina (e del greco per il Kirie) attribuiva al rito un senso contemporaneamente di universalità e di atemporalità che non avevo mai sperimentato prima, mentre gesti e parole, espressi con misura e compostezza, richiamavano con inequivocabile chiarezza i fondamenti della dottrina cattolica.

Gesù, in Mt 18,20 ci dice:“dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”. Ebbene, la stessa percezione della presenza reale, fisica, ancorché non visibile di N.S. era avvertita qui come fortissima ed lo era in misura in ogni caso imparagonabile rispetto a quella che si può avvertire nella forma oggi di gran lunga più diffusa del rito romano.

Da allora passo dopo passo ho impararato nuovamente a pregare, praticare i sacramenti e partecipare alla Messa domenicale. Sono in poche parole diventato gradualmente un “new born Christian” (se vogliamo utilizzare un americanismo che rende piuttosto bene l’idea), ben conscio comunque di essere sempre e comunque, come tutti, un peccatore bisogno di misericordia.

Ma quanto sono cambiato, spiritualmente, da allora! E di tutto questo devo ringraziare il grande Papa Benedetto, che non credo di essere lontano dalla verità se mi permetto già ora di definire come il più grande Santo vivente: un Papa emerito ricco di sapienza e saggezza ed insieme mite e umile di cuore.

Per questo rimasi particolarmente scosso allorché da alcuni media isolani giunsero durissime critiche contro quello che veniva indicato come “il rito sfarzoso di Pio V”, per l’occasione “rispolverato” (evidentemente al pari di un ferro vecchio appena tirato fuori dal solaio) in occasione della prima Messa del neo-presbitero don Michele Piras.

La prima accusa rivolta a lui, come indirettamente ai padri mercedari che l’avevano autorizzata (e infine neanche tanto velatamente anche all’arcivescovo di Cagliari per “culpa in vigilando”) era quella di aver voluto “riportare le lancette dell’orologio della storia indietro di un secolo”.

Peccato che il rito romano nella sua forma straordinaria, ancorché evidentemente con diversa denominazione, non è mai stato formalmente abolito e questo non era avvenuto nemmeno dopo la riforma entrata in vigore nel 1969.

Lo sapeva bene San Pio da Pietralcina che, coerentemente con la sua sensibilità liturgica ottenne, anche dopo quella data, di poter continuare a celebrare nella Santa Messa di sempre (che è tale per il semplice fatto che alcune sue parti sono da far risalire direttamente all’epoca apostolica).

I sacerdoti che liberamente scelgono di celebrare nel “rito tridentino” lo fanno non trasgredendo ma al contrario in forza di una legge universale della Chiesa che Papa Francesco ha voluto fosse mantenuta (e non si capisce perché sarebbe dovuto essere altrimenti!).

Inoltre il riferimento a un prima e ad un dopo il Vaticano II (perché soprattutto a questo si alludeva maliziosamente), quasi che il ventunesimo e ultimo concilio ecumenico avesse generato la spaccatura in due di una storia della Chiesa in realtà limpidamente lineare, non regge ed è anzi molto pericoloso.

Non esiste alcun prima oscurantista e sfarzoso a cui contrapporre un dopo caratterizzato da carità, sobrietà e spirito evangelico. Questa è una palese mistificazione.

San Francesco, la cui vita è stata improntata alla privazione, amava ricordare ai suoi confratelli che “la povertà si ferma ai piedi dell’altare”, per indicare come l’attualizzazione di quell’evento straordinario accaduto alla periferia di Gerusalemme attorno all’anno 30 meritava di essere vissuto anche visivamente in modo straordinario.

Ed è questo il senso autentico del ricorso a rituali e vesti liturgiche di grande suggestione proprio delle messe solenni, mentre in quelle del tempo ordinario a dominare è la sobrietà.

Su una cosa però sono d’accordo con quegli interventi: un eccessivo indugiare sull’estetica, dai paramenti color porpora a pizzi e marsine è un evidente abuso liturgico in quanto, ancorché in buona fede a maggior gloria di Dio, nei fatti distrae fortemente dal sacrificio che viene celebrato sul’altare.

Aggiungerei che altrettanto si può dire in merito all’eccessiva attenzione alla forma, che rende i gesti di sacerdote e chierici troppo meccanici e innaturali.

Ma se tutto ciò può essere tranquillamente fatto rientrare nella tipologia degli abusi rispetto ai quali è giusto e anzi doveroso che le autorità ecclesiali intervengano paternamente, perché non parlare degli innumerevoli scempi a cui ogni domenica i fedeli della Santa Messa in forma ordinaria sono costretti ad assistere e di cui ognuno di noi è stato almeno una volta testimone (inizialmente magari allibito ma poi, gradualmente, sempre più assuefatto)?

E tutto questo troppo spesso senza che vi sia alcun provvedimento del vescovo a cui dovrebbe essere affidato il compito di vigilare?

Perché parole e gesti come i pugni chiusi di don Gallo, degni solo di un comizio della sinistra extraparlamentare degli anni 70, o ancora parodie da avanspettacolo come quelle di un ormai celebre sacerdote brianzolo (che salta cantando a squarciagola i brani dei “Ricchi e poveri” durante i matrimoni) sono passate sempre in cavalleria nel silenzio complice delle gerarchie e ovviamente con il consenso entusiastico dei media mainstream?

Esprimo queste domande con una sincera curiosità di capire il senso di questa plateale disparità di trattamento tra i cattolici “della rottura” e quelli “della continuità”, quasi che questi ultimi costituiscano non già “sale della terra e luce del mondo” e quindi una straordinaria risorsa per la Chiesa universale nel terzo millennio, ma piuttosto figli di un dio minore da trattare con inflessibilità, confinare o bene che vada da tutelare al pari di una specie in via di estinzione.

Perché non lo sono affatto, come possono testimoniare i tantissimi giovani che a questa liturgia si avvicinano sempre più numerosi in virtù del mistero, della bellezza e della santità che essa ogni volta è in grado di esprimere.