Ieri sera ho partecipato a un evento organizzato dal Partito della Rifondazione comunista a proposito del No al referendum sulle riforme costituzionali del prossimo 4 dicembre.

Salutando i presenti, gli organizzatori e gli altri relatori, ho iniziato il mio intervento dichiarando di essere stupito e felice per l’invito ricevuto.

Stupito anzitutto perché la mia formazione e il mio percorso non sono riconducibili alla storia del glorioso Partito comunista italiano e poi perché la mia preparazione tecnico-giuridica non è certo paragonabile a quella del professor Andrea Pubusa e dell’avvocato Gianni Benevole, che avevano parlato prima di me, nè quella politica poteva essere avvicinata a quella del segretario Ferrero, che sarebbe intervenuto dopo di me.

Felice perché questo invito è arrivato in un momento della mia vita professionale – al termine della mia esperienza da direttore de L’Unione Sarda e prima del probabile inizio di nuove sfide – in cui non avendo alcun vincolo di restare super partes ho l’opportunità di esercitare fino in fondo il mio dovere civico di cittadino, dando un contributo attivo alla discussione e a una battaglia di civiltà.

Perchè essere attivisti per il No questo è, in assoluto contrasto con il messaggio che il premier Matteo Renzi cerca di far passare in una campagna elettorale aggressiva e mirata a rappresentare l’ampio fronte che si oppone alla sua riforma come un’Armata Brancaleone composta da vecchi arnesi disfattisti, oscurantisti e passatisti.

Prima di esporre la mia visione a proposito delle varie slealtà che mi hanno portato a maturare la convinzione di votare No, fino a impegnarmi pubblicamente su questo fronte, ho fatto una considerazione e raccontato un precedente che secondo me ben descriveva l’attuale situazione.

La considerazione: per votare e far votare No non è necessario essere anti-Renzi e tifare per la caduta del suo governo. Ho già detto in passato che non ho motivi particolari per arruolarmi nel fronte di quelli che odiano il premier. Le guerre personali non rientrano, infatti,  nel mio modo di intendere la politica.

Si vota sulla riforma, non sul governo Renzi. E, considerando la riforma, le sue origini, le sue finalità, le modalità con le quali è stata adottata, il modo in cui è stata scritta e i danni che produce al sistema delle autonomie locali e in particolare alla Sardegna, votare e far votare No sarebbe un dovere di tutti, non solo degli oppositori di Renzi e di questo governo.

Poi ho raccontato un precedente gustoso, preavvisando la platea che avrei citato un personaggio non molto simpatico in quel consesso.

Si era ai tempi del secondo governo Berlusconi e la trasmissione Rai “Ballarò” si occupava – presente in studio l’allora capogruppo di Forza Italia al Senato – del cosiddetto “lodo Schifani”: l’articolo di legge che introduceva la sospensione dei processi penali che riguardavano le cinque più alte cariche dello Stato. Una norma in realtà cucita addosso all’allora Cav e alle sue necessità contingenti.

Alla stessa trasmissione partecipava, come ospite esterno, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Coinvolto sul tema del lodo Schifani, non smentì la sua fama di spietato polemista, gelando l’uditorio, in primis il conduttore e il malcapitato firmatario dell’emendamento oggetto di discussione: “Lodo Schifani? Ma voi sapete quali sono le complessità che ci sono nello scrivere una legge e ancora di più una che ha la dignità di un “lodo”?

E avete mai visto un faccia Schifani? Secondo voi uno con quella faccia può essere capace di scrivere una legge e un lodo? Cerchiamo di essere seri, per favore”.

Ecco, io non voglio certo offendere nessuno, ma ritengo che la prima slealtà dei proponenti la riforma che siamo chiamati ad approvare o bocciare il prossimo 5 dicembre riguardi proprio le modalità che sono state seguite.

La Costituzione vigente è tra le più giovani nel mondo democratico e occidentale ed è stata frutto di un lavoro lungo, difficile e che ha visto impegnate le risorse migliori di un Paese che cercava di rialzarsi dopo i disastri del regime, della guerra mondiale prima e di quella civile poi. Un Paese diviso, riportato a nuova vita dalla Resistenza e dalla Liberazione e immediatamente lacerato, nell’inizio del suo percorso democratico, prima dal referendum su Repubblica o monarchia e poi dalla nascita dei due blocchi internazionali, che ebbe l’effetto di dividere il grande fronte unitario che aveva guidato Resistenza e Liberazione, inaugurando i 40 anni e oltre (1948-1989) di conflitto ideologico tra Dc e Pci.

Bene, nonostante tutte queste difficoltà, l’Assemblea costituente lavorò con lealtà e dedizione, trovando compromessi verso l’alto, coniugando e valorizzando il mix di competenze e di esperienze dei suoi componenti. Fu un lavoro serio, capace di partorire una Carta dagli altissimi valori, mai totalmente applicata e, ripetiamo, ancora “giovane”.

Ecco, cambiarla, in un certo senso stravolgerla nella sua seconda parte, attraverso frettolosi passaggi parlamentari, con modifiche partorite chissà dove e chissà da chi, senza reale coinvolgimento di tutte le componenti rappresentative del popolo – una riforma costituzionale che viene varata con una stretta maggioranza parlamentare tradisce, se non formalmente almeno nello spirito, la Carta del 1948 – significa utilizzare una modalità non consona.

Negli Stati Uniti, in cui la Costituzione è in vigore da 227 anni, sono appena dieci le occasioni in cui sono stati votati degli emendamenti. Mai nessuno, in oltre due secoli, si è mai sognato di stravolgerla. Qua, in nemmeno 70 anni, sembra ogni volta che si abbia a che fare con qualcosa della notte dei tempi.

Non va meglio se ci concentriamo sulle finalità, dichiarate e non dichiarate. Dicono Renzi, Boschi, Finocchiaro e Verdini: grazie a questa riforma saremo moderni e taglieremo i costi della politica.

Immagino che la modernità sia collegata alla velocità con la quale il Parlamento potrebbe varare le leggi, con la riduzione delle funzioni del Senato, sostanzialmente trasformato in una Camera delle autonomie locali.

Occhio. Velocizzare non significa per forza fare cose migliori e nell’interesse pubblico. Velocizzare, in questo caso, significa far diventare Verbo l’esproprio sostanziale del potere legislativo, portandolo totalmente in capo all’esecutivo, che è proprio dei sistemi in cui è prevista la separazione dei poteri. Un qualcosa che nei fatti è già applicato da una ventina d’anni, da quando – con l’entrata in vigore del sistema maggioritario e di quello dei “premi di maggioranza” – i governi esercitano un controllo “militare” su un Parlamento che è spesso commissariato attraverso il ricorrente ricorso alla fiducia da parte dell’esecutivo.

Dunque, velocità (intento dichiarato) farà rima con la sostanziale fine del parlamentarismo (intento non dichiarato) e del processo di mediazione che è proprio delle dinamiche delle Camere. Non è certo sinonimo di crescita di democrazia e della rappresentazione delle istanze della società e dei cittadini.

Risparmiare? Vale la pena risparmiare 50 milioni di euro per togliere ai cittadini il diritto di scegliere i propri rappresentanti, posto che il Senato non viene abolito? Si dirà: già oggi, con le liste bloccate, i cittadini non possono scegliere. Bene. Non si faceva prima a reintrodurre i collegi uninominali o le preferenze?

Questa riforma non è leale, poi, per il linguaggio con cui è stata scritta. Volutamente contradditorio, velato e inestricabile persino per i più insigni giuristi. Ognuno può dare un’interpretazione diversa su effetti e applicazione. Significa che rischiamo di andare incontro a un lungo periodo di ricorsi, incertezze, lungaggini interpretative. Altro che velocità e modernità.

Infine, scusate, questa riforma è sleale (e mezzo) nei confronti del sistema delle autonomie locali, anche e soprattutto di quelle speciali, come la Sardegna. Sottrae – dichiaratamente – spazi di decisione alle regioni a Statuto ordinario, dando piena applicazione alla guerra da tempo dichiarata dall’establishment ministeriale, quello che parla con le lobby che decidono su grandi infrastrutture, grandi investimenti e grandi affari (non tutti virtuosi), che vede con fastidio la partecipazione dei cittadini ai processi, alle decisioni, ai confronti. In poche parole, al dispiegarsi quotidiano del processo democratico.

È ancora di più sleale, perché non dichiara il suo vero intento, nei confronti delle autonomie speciali, ancora di più odiate dalle élite di cui sopra. Finge di escluderle dal processo di accentramento di poteri e competenze, probabilmente perché la grande intelligenza politica di Renzi gli ha suggerito che sarebbe stato suicida partire col potenziale voto contrario delle regioni autonome. Ma l’introduzione dei meccanismi legati alla clausola di salvaguardia apre porte immediate all’estensione della riforma. La Sardegna, stante l’attuale incompatibilità tra il ruolo di consigliere regionale e parlamentare, per eleggere suoi componenti nel nuovo Senato delle autonomie sarebbe immediatamente costretta a cercare l’intesa con lo Stato per cambiare il suo Statuto. Sia l’attuale situazione politica (con la maggioranza in Consiglio regionale e i vertici della Giunta più renziani e renzisti di Renzi stesso) che la contingenza di una riforma appena approvata in quel senso porterebbero a un adeguamento e a un’estensione dei principi di “supremazia” e “interesse” nazionale che porterebbero a una sostanziale fine della stagione dell’Autonomia. Altro che sovranismo.

Fin qui le mie argomentazioni, espresse ieri nel corso di un’assemblea bella, nella quale si è respirata una forte e appagante tensione democratica. Una bella politica.

Non c’era niente di ingessato, di vecchio e di stantio. C’era la voglia di opporsi a una restaurazione e normalizzazione che a me, e a molti altri, da semplici cittadini, non piace.

Buon No a tutti.