Parole che suonano come campanelli d’allarme. Questioni vecchie e nuove che ci richiamano a un impegno che a volte si scontra con l’ostinata resistenza di muri di gomma che, alla prova dei fatti, risultano essere più solidi persino del cemento armato.
Eppure si tratta di capitoli che dobbiamo avere il coraggio di non archiviare.

Inquinamento.
È quello che per decenni i colossi della chimica, della petrolchimica e dell’alluminio hanno prodotto in alcune vaste porzioni di Sardegna. Scarichi abusivi, accumuli di materiale altamente nocivo, falde acquifere avvelenate, aria resa irrespirabile e malsana. L’effetto dannoso per l’uomo e per l’ambiente è incalcolabile. E, come dimostrato dalle recenti sentenze, nessuno paga.

Bonifiche.
Sono quelle che nessuno ha fatto veramente. Né a Porto Torres, né nel Sulcis. L’effetto? La terra, le falde, il mare, tutto resta inquinato. E le grandi lobby dell’energia e della trasformazione dei prodotti chimici e petroliferi possono continuare a fare utili, senza affrontare il capitolo dei costi per il risananemento. L’Eni Syndial, in particolare, non ha mai presentato il piano per le bonifiche su Porto Torres. Ne ha inviato al Ministero uno per il trattamento delle falde ma i tecnici governativi hanno dimostrato che la barriera idraulica proposta non è in grado di contenere un bel nulla. I veleni continuano a finire in mare.

Lavoro.
In quei settori si è dissolto ed è sempre meno garantito, sia dal punto di vista qualitativo che economico. Eppure in tanti non gradiscono parlarne. Prevalgono i discorsi del tipo «ma se vanno via le grandi industrie – va bene, inquinano e ci pagano poco – noi cosa facciamo?». Stati d’animo comprensibili. Ma forse ci vorrebbe una politica capace di offrire alternative. Con le idee chiare sul fatto che questo modello di (sotto)sviluppo vada presto abbandonato, prima che altro territorio venga sottratto a idee nuove, più affini alla storia, alle caratteristiche dell’ambiente naturale, alla naturale predisposizione dei sardi.

Da mesi sentiamo parlare – propagandata dai maggiori partiti italiani, che pure qualche conflitto d’interessi in quanto a rapporti economici con l’Eni ce l’hanno – dell’ineluttabilità e della centralità della riconversione industriale di Porto Torres, legata alla chimica verde, quasi che bastasse un colore friendly a rendere più presentabile un mostro che conosciamo già in tutte le sue manifestazioni.

Il progetto prevede la produzione di bioplastiche e una centrale a biomasse da 43,5 Mwe. Domanda. In quale maniera questa nuova industria può essere funzionale allo sviluppo economico della Sardegna? Nessuno risponde, se non riferendosi alle buste paga che questo nuovo colosso sarebbe in grado di erogare.

La solita storia, il solito ricatto, i soliti miraggi, le solite collanine luccicanti, sul modello di quelle che i colonizzatori del Sud America mostravano agli indigeni all’inizio del XVI secolo, per rabbonirli.

Film già visti quando dall’Europa arrivarono un paio di piatti di lenticchie, che molti sardi ebbero il torto di accettare in cambio dell’espianto di vigneti, oliveti, campi di cereali. Pochi soldi, con i quali ci siamo venduti il presente e una parte del futuro. Stessa identica modalità con la quale molte amministrazioni comunali (e molti privati), per tacere delle complicità politiche a livello governativo e regionale, cedono territorio per far impiantare a grosse multinazionali cinesi, indiane, russe, spagnole e tedesche immensi campi fotovoltaici o parchi eolici.

Viene fatto perché in Sardegna si possa produrre più energia e, conseguentemente, il sistema produttivo dell’Isola e i privati possano stare meglio?

La realtà ci dice che è esattamente il contrario. Di energia ne produciamo già in surplus e le nostre imprese (e tutti i cittadini) finiscono comunque per pagare una bolletta più cara del resto d’Italia.

Resta dunque la miope logica del “pochi, maledetti e subito”, riferiti a euro volatili che si bruciano in poco tempo, lasciando alle spalle nient’altro che cenere. Altamente inquinante sia per l’ambiente che per lo sviluppo economico.

La chimica di Porto Torres, per tornare a bomba, sarebbe verde perché brucerebbe cardi e non olio combustibile. Immaginate che Sardegna stavano progettando i signori dell’Eni e i loro complici politici: un’immensa distesa di cardi, capace magari di estendersi per mezza Isola e – dunque – di consumare territorio (precludendo, dunque, lo sviluppo dell’agroalimentare). Il tutto su terreni precedentemente inquinati e mai bonificati. E poi lavoro (precario e sottopagato) per pochi, legato allo sviluppo e alle bizze del mercato.
Nel frattempo al benzene, al dicloretano, al cloruro di vinile monomero già lasciati in eredità da decenni di chimica andrebbero ad aggiungersi le diossine, i furani e le polveri ultrasottili.

Va da sé che a tutto questo occorre dire no. Servirà una grande mobilitazione di popolo per impedire che un nuovo scempio possa essere perpetrato, in spregio alle leggi naturali. Non ci sarà nessuna legge formale, approvata da parlamentari che dimostrano di votare gran parte dei provvedimenti senza nemmeno conoscerli, nessun atto di indirizzo degli uffici ministeriali, nessun (eventuale) complice silenzio della Regione, nessuna prepotenza da parte delle lobby che potrà arginare una coscienza di popolo.

Ma la coscienza bisogna avere voglia di formarsela. Il problema è che siamo troppo anestetizzati o incavolati col mondo, spesso impegnati a sparare a zero su tutto quello che ci passa davanti, per impegnarci. Ma si tratta di un dovere civile.