C’è davvero chi è convinto che voler bene alla Sardegna faccia rima con dire no a tutto e a tutti?
Scegliere la demagogica via della protesta, cavalcando l’insoddisfazione delle masse e rinunciando al nostro dovere di analizzare e raccontare il presente, imparando dal passato e provando a indicare una strada virtuosa percorribile nel futuro, sarebbe un grave errore.
Ma, ad esempio, dire un deciso no a servitù militari sempre più invasive e alla lobby dell’energia, non vuol certo dire che la Sardegna deve tornare all’età della pietra?
I più attenti tra noi – quelli che non si lasciano distrarre dal rumore di fondo e dalle urla di chi ha interesse a conservare lo status quo – non possono farsi scappare i rapporti macroeconomici, quelli che raccontano il lavoro che non c’è.
Analizzando i numeri, ascoltando le storie delle persone, rilevando l’assenza di una programmazione, capace di immaginare il futuro dell’Isola e dei suoi abitanti per le prossime generazioni, si scopre che dal 2008 a oggi sono stati persi 80 mila posti di lavoro e che, anche domani e dopo, 119 mila sardi disoccupati proveranno – quasi tutti inutilmente – a migliorare la propria condizione.
A loro vanno aggiunti i 130 mila inoccupati che la busta paga hanno persino smesso di cercarla.
Fanno, tutti insieme e con molti altri, parte del mare magnum dei 416 mila e più iscritti ai centri servizi lavoro.
Tra questi ci sono gli oltre 8 mila cassintegrati, a loro volta la metà dei componenti le liste di mobilità.
Cosa ci dicono questi numeri? Quello che nessuno ha il coraggio di gridare a voce alta: la Sardegna è tecnicamente fallita e, se il trend non viene invertito, è destinata al genocidio “dolce” che sarà causato dai fenomeni dello spopolamento e della desertificazione. Perché accade? Perché il modello di sviluppo è sbagliato.
Anzi, perché il modello di sviluppo non c’è.
E dunque chi difende lo status quo, attaccandosi a questo o quel privilegio, a questa o quella posizione di vantaggio, compie un atto di egoismo.
Spera di massimizzare consenso seminando il terrore («e se vanno via i militari che si fa?», «e se non ci facciamo colonizzare dalle aziende che ci promettono posti di lavoro in cambio di sfruttamento, inquinamento e distruzione del territorio che si fa?») pensando all’oggi e infischiandosene del futuro dei propri figli, degli altri sardi e della memoria che i nostri avi ci hanno lasciato.
Basti ricordare la parabola del Sulcis, illuso e sfruttato da anni di investimenti a pioggia che, alla lunga, hanno seminato su quel territorio inquinamento e disoccupazione, portando a un raccolto di disperazione e ansia.
Se si pensa che Alcoa, da sola, è costata 1,2 miliardi di euro allo Stato c’è da mangiarsi i polpastrelli a pensare cosa si sarebbe potuto fare, di duraturo, virtuoso e compatibile con quei soldi.
L’agricoltura? Oltre 2 mila aziende chiuse in un anno e un milione di ettari fertili non più coltivati in un’Isola che, nel contempo, è costretta a importare l’80% dei prodotti che ogni giorno arrivano sulle tavole dei sardi.
Cosa c’è dietro? Il disastro di una mancata programmazione, di una scarsa propensione all’associativismo e politiche di filiera inesistenti.
Intanto i nostri agricoltori vengono spinti a vendere, per un piatto di lenticchie, le loro terre alle lobby dell’energia che impiantano pannelli solari (mascherando da serre i catafalchi che li ospitano), pale di mini e maxi eolico.
Gli sfruttatori che arrivano da oltre Tirreno si sono fatti furbi e puntano a carpire la buona fede dei “nativi” con collanine dipinte di green e riempiendosi la bocca con i parametri del protocollo di Kyoto.
Evitano accuratamente di dire, però, che la Sardegna produce un surplus di energia.
Cosa significa? Che la produzione in esubero, quella che viene realizzata sulle terre sottratte all’agrindustria, viene prodotta a due lire (e pagata da noi utenti in bolletta) ed esportata sul mercato extra sardo.
Non raccontano, poi, che al termine del ciclo di utilizzo, i pannelli e le pale eoliche rimarranno sul territorio come croci infilzate sulla nostra carne.
Nessuno ha ancora pensato a come, dove e quando verranno smaltiti questi enormi rifiuti speciali.
Visto l’andazzo, significa che una parte del nostro territorio funzionerà da discarica a cielo aperto.
Nessuno dice che la chimica “verde” rischia di essere l’ennesima presa in giro: qualche busta paga, nessuna rassicurazione a lungo termine e molte terre occupate non solo dalla fabbrica ma per la coltivazione di cardi, che dovrebbero essere poi bruciati.
È questa la Sardegna che vogliamo?
Io penso di no.
E sono certo che non la vogliano nemmeno molti di voi.