Negli ultimi quindici anni in Italia un ettaro di superficie su tre è andato in fumo in Sicilia, un ettaro su cinque in Sardegna.

In totale due terzi degli incendi italiani ha interessato le isole maggiori e la Calabria. Sempre nelle isole maggiori gli incendi più devastanti.
Se ci aggiungessimo la Corsica, la tendenza sî consoliderebbe.

Il problema è strutturale e non certo culturale, come qualcuno si è avventurato a sostenere.

Sicilia e Sardegna sono rispettivamente la prima e la terza regione della Repubblica italiana per estensione e fuori dalle aree metropolitane (quella di Palermo fa da sola gli abitanti dell’intera Sardegna) sono scarsamente antropizzate, per usare un eufemismo.

Desertificate sarebbe la parola giusta.
E con questa tendenza (spopolamento, abbandono delle colture, mancata manutenzione di boschi e foreste, vasti incendi che si alternano ad alluvioni sempre più travolgenti) il deserto è destinato ad avanzare.

Ho personalmente vissuto il dramma di Santu Lussurgiu e Tresnuraghes, ho penato per la casa dei miei genitori e dei miei suoceri, per la vigna, per gli oliveti di famiglia. Ho pianto assieme ai miei vicini di casa e ai miei amici, ho provato ammirazione per gli amministratori locali, unico vero baluardo rispetto alla solitudine che da sempre avvertiamo quando a queste latitudini si parla di Stato. E considerato eroi i tanti volontari che hanno unito le loro forze agli altrettanto ammirevoli soccorritori “professionali”.

Ho provato a raccontare quel che ho vissuto in prima persona e poi mi sono predisposto all’ascolto: della rabbia dei cittadini, delle accuse a chi governa oggi e persino a chi ha governato ieri, alle lunari dichiarazioni dei mandarini romani. Ma, soprattutto, ho letto gli spunti di riflessione che ci hanno offerto alcuni uomini e donne di grandi autorevolezza: il problema “tecnico” legato alla vetustà dei macchina dei soccorsi, il problema della “manutenzione” del territorio, quello dell’assistenza alle comunità periferiche e del modello di comunicazione dell’emergenza, totalmente inadeguato.

Provo a fare un rapido riassunto per titoli.
Il fuoco che nelle notti di venerdì e sabato ha potuto correre indisturbato, perché quando fa buio gli aerei smettono di volare e le squadre a terra non possono lavorare.

I mezzi inadeguati. È mancata l’acqua per chi operava con gli idranti e i camion troppo grandi non riuscivano ad accedere alle strade di campagna. Paiono storie incredibili, in alcuni casi sono state fantozziane.

La comunicazione. Quella dell’emergenza non esiste proprio. Abbiamo assistito a notizie che si rincorrevano in maniera a tratti disordinata, a tratti insufficiente, a tratti infodemica. Serve capire che occorre una specializzazione, a tutti i livelli, per concorrere ad affrontare le situazioni in maniera sistematica e adeguata. Si può fare, lo dimostra l’esempio di alcune amministrazioni comunali, che si sono affidate a specialisti.

La manutenzione. Non ho nulla da dire se non rimandare a ciò che hanno detto e scritto esperti della statura di Giuseppe Mariano Delogu e Antonio Dessì.

E la mancanza di empatia della politica: il presidente Solinas ha scelto di coordinare la macchina dei soccorsi dalla “situation room” della Protezione civile invece che raggiungere i suoi assessori sui luoghi della tragedia.
È mancata la visita di lutto, la partecipazione – anche fisica – al dolore e alla paura, alla disperazione e alla rassegnazione.
Anche questo è un problema strutturale.

P.s. Sono di Tresnuraghes e non ho ancora trovato un tresnuraghese in grado di confermare la storia raccontata da un simpatico marchigiano, su due eroici cani maremmani che avrebbero riportato le greggi in “città”. Su questa vicenda kafkiana potremmo aprire un capitolo non breve, capace di raccontare essa da sola il tempo malato in cui siamo costretti a vivere.