E menomale che, nel centenario del Partito Sardo d’Azione, c’è chi ha ricordato la figura di un vero sardista–presidente rappresentativo della Regione Sardegna, che nulla aveva da spartire con le destre populiste e reazionarie.

Del resto, un progressista democratico per eccellenza, il sindaco di Oliena, il consigliere provinciale e regionale, il deputato di Montecitorio e di Strasburgo, il primo sardo che porta i Quattro Mori al Palazzo di Vetro, il presidente della Regione che a Bologna parla della strage fascista alla stazione, che cosa poteva condividere con la destra o con un alleato totalmente inaffidabile che doveva risolvere “in un quarto d’ora il problema del prezzo del latte” e che, dopo anni, non ha risolto un bel nulla?

In questa primavera di storia sarda diventata spesso rotocalco, stropicciata e tradita, è doveroso parlare di “Mario Melis, il presidente dei Sardi”, libro recentemente pubblicato dal giornalista Anthony Muroni per l’editore Arkadia (pagine 147, euro 20).

Un libro con molte testimonianze autorevoli (tra le altre quelle dei non sardisti Pietro Soddu, Antonello Cabras, Franco Mannoni, Manlio Brigaglia, i tre figli Michela Antonio e Laura).

Scritta bene, documentata nella ricostruzione di differenti stagioni politiche, la biografia postuma di Mario Melis consegna ai lettori la solida statura di un leader che aveva studiato, che era “passione e memoria” (sintesi di Remo Bodei), che intendeva per autonomia “la coscienza di sé” non il rifiuto dell’altro.

Aveva frequentato lo studio legale del senatore Luigi Oggiano per il quale “l’autonomia è intelligenza, saper conciliare il diritto privato con quello pubblico”. Soddu ne ricorda l’attenzione “fortissima per la vita sociale” e la sua visione di “sardismo diffuso”. Cabras sottolinea il lacerante dilemma del tracollo industriale degli anni Ottanta ber tentare “una gradualità nella transizione dal vecchio al nuovo”, perché “Melis era permeato da una fortissima propensione all’innovazione” in un secolo che, per dirla con Jeremy Rifkin, segnava “la fine del lavoro” in senso fisico.

Era il sardista che vedeva nella Sardegna il ponte tra Africa ed Europa, il sardista che immaginava un Mediterraneo di traffici internazionali e non di naufragi quotidiani, il sardista che credeva nelle risorse locali ma “supportate da una solida base industriale innovativa”, il sardista che nel federalismo non vedeva piccole patrie separate, contrapposte, ma la struttura funzionale dei Land tedeschi dei quali parlava soprattutto Camillo Bellieni, il vero ideologo di un sardismo poi interpretato da Piero Soggiu.

Nella pandemica afasia politica quotidiana (chi oggi disegna scenari futuri e chi oggi parla del domani della Sardegna?) queste pagine di Muroni dovrebbero almeno provocare reazioni, ripensamenti di schieramento, dibattiti sulla Sardegna prossima ventura.

È lo stesso problema dell’Italia “senza nocchiero”, della fragile Europa schiacciata tra i colossi asiatici e la ribollente guerra poco fredda tra Usa e Russia.

Nelle visioni di Mario Melis (“temperie”, “anelito”, “strategia”, “tensione morale” alla Enrico Berlinguer) c’era una Sardegna solidale, aperta, dinamica, soprattutto “ricca di competenze”.

Quello dei livelli di istruzione era – nel segno di Antonio Gramsci – una angoscia quotidiana di Mario Melis: nella sezione nuorese di via Tola, nelle sue case di Cagliari zona Poetto e Nuoro sotto Sant’Onofrio, nella sezione oristanese di via Parpaglia, nelle piazze dal Sulcis alla Gallura dov’era oratore ammirato.

Purtroppo il quo vadis della Sardegna non è tema per moltissima classe “dominante” di oggi. Chi legge Melis-Muroni ha sufficienti stimoli per redimersi.