Al ventennale della nascita dell’euro The Economist dedica due articoli intitolati L’euro non è ancora al sicuro e L’unione cucinata in modo insoddisfacente.

In essi viene riconosciuto che la crisi dei debiti sovrani seguita alla crisi finanziaria americana del 2008 ha fatto temere che la moneta europea fosse al collasso, ma il forte sostegno dato dagli Stati membri dell’eurozona e dalla pubblica opinione ha evitato il dramma.

Tuttavia afferma che “questo sostegno non riflette un successo economico e politico” in quanto la crescita europea resta bassa e diffusa in modo disomogeneo, la disoccupazione resta elevata in più paesi membri e i salari crescono poco da per tutto.
“La storia dell’euro, continua l’autorevole settimanale, è seminata di errori dei tecnocrati”.

Il peggiore è non aver riconosciuto che il debito greco non era rimborsabile e le decisioni prese per difenderlo hanno causato una depressione che ha ridotto di un quarto il PIL della Grecia. La severità di giudizio investe anche la BCE che “ha una storia ignominiosa di politica monetaria restrittiva” che, tra l’altro, “ha lasciato sole le aree depresse” ed è stata “lenta nel reagire al crash finanziario del 2008, considerandolo in modo arrogante un problema americano.”

Il giudizio diviene particolarmente incisivo quando attribuisce che essa “nel 2011 ha contribuito a far entrare l’Europa in recessione accrescendo troppo presto i tassi dell’interesse”, errore commesso da Jean-Claude Trichet, ma non risparmia neanche il successore Mario Draghi, la cui “promessa del 2012 di fare whatever it takes per salvare l’euro è stato un atto improvvisato”.

L’analisi continua sostenendo che il mal governo della crisi “ha spaccato l’Europa tra paesi creditori e paesi debitori, aiutando i partiti populisti a emergere”. Poiché “la crisi può tornare, potrebbe consegnarci una condizione politica anche peggiore”. Al che fare risponde che occorre “evitare che le banche e i debiti sovrani si trascinino a vicenda, danneggiando l’economia. Le difformità tra le economie dell’eurozona richiedono che gli shock locali vengano compensati della perdita della loro indipendenza monetaria …

In linea con le regole EU, esse devono avere più margini per uno stimolo fiscale nelle crisi. Ciò, tuttavia, per le stesse regole UE non è possibile per i paesi come l’Italia afflitte da decenni di debito elevato. I cittadini degli Stati indebitati non possono sopportare una stagnazione perpetua.

L’eurozona dovrebbe avere una qualche politica fiscale centralizzata in funzione anticiclica… che includa una spesa per investimenti finalizzata e … una comune assicurazione per la disoccupazione.”

Pochi giorni prima Mario Monti aveva dichiarato che l’UE dovrebbe intraprendere un piano di investimenti finalizzati sotto il controllo della Commissione europea. Altri hanno seguito questa linea di ripensamento della politica seguita, ammettendo la necessità di uno stimolo fiscale dal lato degli investimenti.

Tutte queste sono le posizioni espresse il 7 settembre 2018 nel documento inviato a Bruxelles e Francoforte intitolato “Una politeia per un’Europa diversa, più forte e più equa”, in attuazione del paragrafo 29 del Contratto di Governo. Esso si prefiggeva di togliere i rapporti intraeuropei dalla palude politicamente pericolosa delle discussioni sul rispetto dei parametri fiscali che sta portando l’UE nella direzione temuta da The Economist.

Nel caso dell’Italia, il dialogo europeo è stato pazientemente e insistentemente ricondotto dalla Commissione, cavalcando la spinta della speculazione di mercato, su questo piano tradizionale, mantenendo l’euro in uno stato di insicurezza (Draghi l’ha definita “incompletezza”, The Economist “cucinata in modo insoddisfacente”).

Esso si riflette negativamente sugli andamenti economici intraeuropei già insoddisfacenti, mettendo a rischio gli equilibri politici, come testimoniano i disordini francesi e i malumori italiani. The Economist afferma che la crisi economica può tornare, mentre essa è già in atto e si abbatte in modo diverso a livello locale; tutto lascia credere che ci troviamo di fronte a un nuovo tragico “errore tecnocratico” di valutazione. L’azione dell’UE ha da tempo preso una deriva pericolosa per la sua stessa sopravvivenza. In Italia non se ne vuole parlare e, quando se ne parla, si preferisce negare la realtà.

La lezione tenuta da Jan Kregel ai Lincei venerdì è una lucida descrizione di che cosa andrebbe fatto per uscire da questa situazione.
Si voglia o non si voglia, non potrà eludersi l’apertura di un dialogo sulla riforma dell’architettura istituzionale e delle politiche UE, come richiesto dalla proposta italiana. Non solo per il bene dell’euro, ma della stessa stabilità politica dell’Unione.

Si dovrà riconoscere che non solo la Francia, come sostenuto da The Economist, ma anche l’Italia si è mossa nella giusta direzione, senza per ora scuotere la riluttanza, se non proprio avversione, mostrata da molti paesi dell’eurozona, dalla Commissione e dalla stessa BCE. Si rifiuta un dialogo più aperto che includa l’indispensabilità della presenza nell’eurozona di un lender of last resort, lo chiami ESM o fondo salva Stati, e di un fondo comune per la lotta alla disoccupazione, come richiesto dai francesi, sotto controllo europeo, ma senza condizionalità che operano in senso contrario alla crescita.

I tempi delle decisioni sono molto più corti di quelli imposti dalle attese dei risultati di una nuova legislatura europea e, se non si agisce subito, probabilmente non andranno oltre il Labor Day del 2019.