Roberto Deriu, 49 anni, giornalista, nuorese, è consigliere regionale del Pd dal 2014. Nella sua città è stato assessore comunale, prima di assumere la guida – per nove anni – dell’amministrazione provinciale.

Il confronto sul governo è arrivato al momento decisivo. Lei è sempre convinto che se uscirà con un esecutivo a guida Fico, sostenuto da tutti?

No, io avrei visto quella soluzione come capace di determinare un governo politico, che auspico, capace di raccogliere i consensi di tutti, premessa necessaria alla sua nascita. Per il resto, sono un politico e non un politologo. Non ho la sfera di cristallo, sugli scenari.

Se questo scenario dovesse verificarsi, cosa è lecito aspettarsi di concreto, dal punto di vista dell’azione legislativa ed esecutiva?

Una pacificazione nazionale, e il recupero di un linguaggio comune; forse anche alcuni provvedimenti di carattere strutturale, che ci aiutino a consolidare qualche buon risultato e ad uscire dalla dolorosa crisi sociale che è seguita alla crisi economica.

È presto per un serio bilancio – e dunque una autocritica – su quanto accaduto in casa Pd nell’ultimo decennio?

Il tempo dell’autocritica sta – purtroppo – finendo, e senza che essa si sia compiuta. Tra poco sarà il momento di scelte operative, e temo che saranno assistite da una riflessione insufficiente. Questo perché nelle classi dirigenti dilaga un’errata sfiducia nel Popolo, nella sua voglia di partecipare consapevolmente, di avere a disposizione i partiti quali strumenti di accesso al potere e alla conoscenza che dal potere deriva.

Di conseguenza, nel dettaglio, questa disamina arriverà anche in Sardegna?

La Sardegna è oggi molto lontana dalla politica italiana; la classe politica sarda non è più integrata con quella della Repubblica, ma viceversa gregaria rispetto a tutti i sistemi e le organizzazioni di livello statale. Ciò riguarda (molto pericolosamente) anche e forse soprattutto il M5S.

Ora si parla di Pd sardo, federato con Roma. Una proposta che Cabras e Maninchedda lanciarono già a inizio di questa legislatura. Non le pare che questa proposta arrivi fuori tempo massimo? Nel senso che possa essere interpretata come una mossa disperata per salvare il salvabile.

Se si legge la politica come una concatenazione di mosse tattiche, allora ogni proposta serve a superare un piccolo problema d’immagine o a conseguire un piccolo vantaggio di posizione; ma se guardiamo la politica come alla risposta culturale e progettuale allo svolgersi dei processi storici e sociali, allora l’idea che in questo momento sia necessaria una coalizione nazionale sarda, e non solo partiti di matrice o orientamento sardo, mi pare assai attuale.

Cambiano le strategie ma non gli uomini e le donne che le portano avanti. Il Pd sardo sembra ingessato – ai vertici – da oltre dieci anni.

Il cambiamento c’è stato, nelle cariche istituzionali e nei ruoli formali; le leadership invece sono quasi immutate, e ciò dipende dal fatto che le generazioni più giovani ancora non hanno proposto se stesse come un fattore di innovazione. Tutti vogliono cantare e suonare, ma nessuno compone la musica.

Il deficit di vero rinnovamento delle classi dirigenti è quel che più potrebbe frenare la credibilità delle vostre prossime proposte. Come pensate di superare questa difficoltà?

Ho proposto, ormai due anni or sono, a molti esponenti trentenni e quarantenni del PD sardo un percorso di elaborazione politica impegnativo e rigoroso, che potesse sfociare in una nuova leadership politica del partito da parte loro, e nacque Agorà. Molti di essi avevano partecipato, negli ultimi dieci anni, alle scuole politiche organizzate da noi. Li ritenevo e li ritengo persone capaci e interessanti. Eppure non sono riusciti a trovare tra loro una sintesi efficace. Forse occorre che sia il partito nella sua interezza a credere in un investimento cospicuo sulle nuove generazioni. Serve una generosa lungimiranza da parte dei più vecchi.

Cosa lascia, di concreto, il vasto schieramento trasversale manifestatosi nella riunione sulla vertenza Ottana di venerdì?

C’era un’atmosfera che pensavo relegata al passato; invece la cultura politica e la coscienza partecipativa sono i frutti durevoli della nostra piccola rivoluzione industriale. La Sardegna centrale non è ancora rassegnata a morire. C’è un limite: che le Sardegne sono molte e diverse, e occorre un vasto accordo tra esse perché si sviluppi una nuova stagione della Rinascita.

Si è rimarginata, nel vostro partito, la ferita aperta con una parte dei vostri amministratori locali a seguito della questione ANCI?

La ferita è stata inferta non al partito, ma al sistema democratico: oggi i sindaci, che dovrebbero essere il baluardo della democrazia, gli apostoli della rappresentanza dei cittadini e dei territori, sono rappresentati da un presidente eletto con meno voti di quelli ricevuti dal suo sfidante diretto. È uno strappo etico prima che politico o giuridico. E come tale invalida ogni tentativo, pur lodevole, di svolgere una positiva attività pubblica.

Se lei potesse determinare la linea programmatica e comunicativa, su quali tre punti punterebbe nella prossima campagna elettorale per le Regionali?

Se dobbiamo scegliere tre parole, esse sono Democrazia, con le istituzioni, le amministrazioni e i partiti; Risorse, con la spesa pubblica, il sistema produttivo e l’istruzione; Qualità della vita, con lo Stato sociale, la legislazione dei diritti, l’integrazione. Se ne dobbiamo scegliere una sola: Felicità. Per tutti i Sardi.