Annuncia il sito del Consiglio Regionale che il 10 aprile si discuterà di una legge sulla disciplina della politica linguistica. E’ una proposta in gestazione da quattro anni che ha come principale obiettivo quello di fare a pezzi la lingua sarda. Si, proprio così, a pezzi.

Contrariamente allo Stato e all’Europa che considerano il sardo come una lingua unita, la nostra assemblea autonomistica si appresta (speriamo di no) a raccontare al mondo che invece la nostra lingua è divisa. Come lo siamo noi, forse. La forza del racconto giuridico, per le lingue, è micidiale: se una lingua in una legge è definita in un modo, anche se in realtà non è così, poi è probabile che lo diventerà.

Il testo di legge risente di un’impostazione che vuole assolutamente negare, e in maniera palese, l’unitarietà della lingua sarda. Ciò accade perché l’ispirazione della legge ricalca soprattutto schemi folkloristico-antropologici e luoghi comuni sulla presunta divisione del sardo in due grandi aree e in una miriade di varianti locali. Questo è anche vero, ma in realtà il fenomeno riguarda normalmente tutte le lingue ed esaltarlo in una legge e porlo in maniera così vincolante per l’identità giuridica del sardo, blocca qualsiasi processo di modernizzazione, ufficializzazione e standardizzazione peraltro già in atto da decenni.

Si vuole una lingua divisa, come il popolo sardo stesso. Perché? Per ignoranza, studipidità, vendetta. Un regolamento di conti da parte di chi si è sentito escluso. Un tanto peggio, tanto meglio. Il cupio dissolvi, con la benedizione dei padri nobili imbolsiti, del movimento linguistico che dagli Anni Settanta si affanna in Sardegna.

In sostanza si vuole far passare una linea che contrasta la Limba Sarda Comuna scritta per valorizzare i dialetti e la mitica divisione tra campidanese e logudorese, propugnata da ambienti folk e accademici.

Il processo di cristallizzazione folkloristica si esplicita in modo particolare laddove si definisce pleonasticamente la lingua sarda “nelle sue varianti storiche e locali” (articolo 1, comma 2), ma soprattutto nell’articolo 2 del comma B dove queste ipotetiche varianti vengono definite come le “macro varianti letterarie logudorese e campidanese”.

Nessuno si era mai azzardato a mettere in dubbio in una legge l’unità del sardo in questo modo (neppure lo Stato italiano) e l’effetto pratico sarà, attraverso l’uso di una norma ortografica plurale creata ad hoc, del rafforzamento di due o più varietà scritte invece che una in fieri. Non sfugga che ciò porterà, per emulazione, anche l’avvio di una fase centrifuga di localismo con richieste di riconoscimento di altri territori. Perché il nuorese no? Perché il baroniese no? Perché l’arborense-mesania no? E l’ogliastrino perché deve sottostare alla tirannia del campidanese di Cagliari?

La lingua sarda sarà babelizzata e folklorizzata come se fosse un ballo o una cantata poetica. Ogni municipio, ogni poeta, ogni scuola avrà la sua lingua e i suoi esperti. Cresceranno i costi, le clientele, i voti. Con il sogno di rafforzare la divisione in Capo di Sotto e di Sopra inventata dagli spagnoli per governarci meglio. La differenza sarà che oggi questa divisione l’abbiamo talmente introiettata che la proponiamo noi stessi nella nostra aula parlamentare.

Il secondo obiettivo palese e nascosto della legge è dunque quello di bloccare il processo di standardizzazione del sardo fin qui messo in atto e in particolare la Limba Sarda Comuna approvata come sperimentazione dalla Regione nel 2006 con la delibera n°16/14.

A questo fine si attuano due strategie:
a) creare una norma plurale di trascrizione ortografica generale (delle varianti, ovvero dei dialetti) che entri in competizione con la norma linguistica di riferimento unitaria e che crei un effetto babele in particolare a scuola (articolo 24, comma 3, lettera K) e negli enti locali.

b) sabotare la LSC mettendo in atto un falso processo di standardizzazione che, attraverso una regolamentazione capziosa dello stesso (articolo 9), ha come unico obiettivo quello di fermare in realtà la standardizzazione già iniziata.

E’ necessario pertanto che ci siano in aula degli interventi di emendamento mirati a superare questi problemi con l’eliminazione di queste diciture che negano di fatto lo status di lingua unitaria al sardo introducendo elementi di soppressione di parte delle norme o, nel caso dell’articolo 9, riscrivendo tutto il processo di miglioramento della standardizzazione, assicurando la continuità della Lsc in attesa che si trovi una proposta migliore, se dovesse essere trovata.

Sulla certificazione si ritiene improvvido affidare tale responsabilità in primis alle università (cosa inedita in tutte le minoranze linguistiche europee) nelle quali la competenza attiva dei docenti di linguistica è discutibile cosi come l’idea politica sul sardo come lingua normale da certificare. L’accademia pensa che il sardo sia solo una miriade di dialetti (si riconosce in questa legge) e pertanto ostacolerà ideologicamente il processo di certificazione di una lingua unitaria.

L’articolo 34 è totalmente estraneo alla materia della disciplina di politica linguistica, ma riguarda piuttosto le tradizioni popolari e il folklore e va rimandato a un altro provvedimento normativo.

Da notare che la legge crea tre organismi: l’Agenzia, l’Obreria della scuola e l’Academia della lingua in tempi in cui sarebbe meglio non esporsi a critiche delegittimanti sulla pletora. Nella parte dedicata all’insegnamento e a gli sportelli non ci sono grandi novità rispetto alle leggi già vigenti. Non sono previsti interventi significativi per bloccare o rallentare la perdita della trasmissione intergenerazionale. Il CSU, una delle organizzazioni maggiori della politica linguistica, non è stata mai audita perché contraria alla legge.

Insomma, è una legge che non convince. Sarà una sconfitta per tutti. L’unico scopo è esaltare la divisione dei sardi e della loro lingua per una ripicca di parte.

Per lo studioso del colonialismo Edward Said, se fosse ancora vivo, sarebbe un caso perfetto di “orientalismo”: raccontarsi attraverso una legge con gli occhi dei dominatori e rovinarsi con le proprie mani. Con la propria autonomia.