La situazione catalana, a un mese dalle recenti elezioni, mantiene intatta tutta la sua complessità. Per cercare di raccontarla, e soprattutto per comprenderla, bisogna tenere bene a mente quel punto di biforcazione storica, avvenuto l’ottobre scorso, tra l’1 e il 27, che ha determinato l’esistenza di due realtà divergenti, una repubblicana e l’altra costituzionalista, che procedono in simultanea e si avversano in modo inconciliabile.

Da qui si dipana una dialettica politica pressoché impossibile, e nondimeno obbligata, che la rende appunto così appassionante.

Il responso delle elezioni è stato chiaro e le conseguenze si sono cominciate a vedere la settimana scorsa, in cui si è costituito il Parlament: le forze repubblicane hanno fatto valere la loro maggioranza (nonostante l’assenza dei cinque deputati di Bruxelles, che non hanno potuto esprimere né delegare il proprio voto, a differenza dei 3 deputati in prigione preventiva) e hanno eletto al secondo turno con 65 voti contro 56 (e 10 astenuti) un presidente repubblicano, Roger Torrent, giovanissimo sindaco di Sarrià de Ter, località prossima a Girona; questa stessa maggioranza si è imposta alla Mesa del Parlament (3 indipendentisti su 5), mentre Ciudadanos si è dovuto accontentare della vicepresidenza seconda.

Ora, però, si viene al dunque, ovvero all’elezione del president. E qui le gatte da pelare sono molte. Il governo spagnolo continua a far uso di tutte le armi di cui dispone lo Stato, eccetto il dialogo, per imporre la propria idea di legalità. La strategia di Rajoy continua a essere quella di “decapitare” l’indipendentismo, nelle persone dei loro leader, e una parte del lavoro l’hanno fatto: Junqueras, vicepresidente del governo catalano, è in prigione da due mesi; Puigdemont, il presidente legittimo, è a Bruxelles, da dove può mantenere la continuità dell’istituzione che rappresenta ma non, secondo i costituzionalisti, venire rieletto, perché la presa di possesso richiede la presenza fisica del candidato.

Su di lui, com’è risaputo, pende un mandato di cattura per delitti (sedizione e ribellione) gravissimi, ma che sono più immaginari che reali, visto che manca la violenza che li definisce tali. Ma non importa: il punto non è la giustizia ma il risultato da ottenere, che per Rajoy è soltanto uno, ovvero impedire che Carles Puigdemont venga riconfermato dal parlamento catalano come il proprio presidente.

Ecco, di nuovo, che il conflitto di legittimità tra lo Stato spagnolo e la nascente (ma “illegale”) Repubblica catalana si concentra in un punto. A ottobre era il referendum d’autodeterminazione; ora, a fine gennaio, sarà l’elezione del presidente del governo. Quel referendum non doveva potersi celebrare, eppure è stato fatto. Si doveva impedire che ci fossero urne, schede, seggi, censo, e invece tutte queste cose ci sono state, nonostante l’uso abnorme della forza pubblica e la violenza esercitata sugli elettori inermi. Cosa accadrà stavolta, nella lotta tra due fonti di legalità che perseguono obiettivi contrapposti?

Il 21 dicembre le urne hanno parlato chiaro: il progetto politico indipendentista ha ottenuto 70 seggi su 135, una maggioranza assoluta indiscutibile. A nulla è valsa la pressione dell’articolo 155, il commissariamento delle istituzioni, il controllo ferreo sui mezzi di comunicazione pubblica catalani. Il popolo è testardo e ha voluto riconfermare il governo destituito, per quanto Madrid possa considerarlo “illegale”. Ciascuna delle due parti vuole tornare a una situazione di “normalità”, ma si tratta appunto di concezioni opposte della stessa. E forse, dopo le manganellate del primo ottobre, la normalità non c’è più, è stata definitivamente fatta a pezzi.

Dove la normalità è perduta, dovrebbe intervenire l’autorità della legge e dei regolamenti, nonché la loro interpretazione. In teoria, chi elegge il presidente del governo è il parlamento, legalmente costituito nei giorni scorsi. I deputati scelgono per voto individuale il candidato che raccoglie la maggioranza dei consensi. In questa scelta, il governo di Madrid non dovrebbe entrare in alcun modo. Inoltre, ciascun deputato legalmente eletto deve poter essere candidabile alla presidenza del governo.

E questo è anche il caso di Puigdemont. Infine, ogni diputato gode di immunità parlamentare, un requisito volto a garantire, per legge, il suo diritto di partecipare alle istituzioni per le quali è stato eletto. Seguendo il filo di questa argomentazione, Puigdemont, che è stato capolista di Junts x Catalunya, la forza indipendentista più votata, ha diritto di essere rieletto presidente.

Ma qui interviene il veto dello Stato. Rajoy ha ordinato di impedire con ogni mezzo che Puigdemont venga rieletto President della Generalitat. È una questione di principio, una dimostrazione di forza davanti al mondo. Il diritto, in questo caso, è solo un mezzo per ottenere un fine politico. Si ricorre al Tribunale Supremo al tempo stesso in cui si saltano le più elementari regole democratiche, a cominciare dalla separazione dei poteri.

Puigdemont, dal canto suo, conosce l’importanza simbolica di questa partita e ha la ferma volontà di far valere i propri diritti, calpestati dal 155 e confermati invece dal voto popolare. L’ipotesi che il president possa rientrare d’incognito in territorio catalano per l’investitura sta mettendo in subbuglio le forze di sicurezza spagnole, oltre ad essere motivo di scherzo sulle reti sociali (centinaia di messaggi dicono di averlo visto nei luoghi più impensati, e circolano mascherine con la sua faccia con le quali vengono realizzate fotografie ironiche, come se volessero depistare gli inquirenti).

Quindi ne vedremo di belle. La settimana prossima sarà cruciale. La strada per investire Puigdemont è una gincana in salita. Il governo spagnolo dice che è impossibile. Promette di impugnare l’eventuale decisione del parlamento e portarla al Tribunale costituzionale. Avvisa che il monarca si può rifiutare di firmare il decreto. Minaccia di arrestare Puigdemont nel momento della presa di possesso della presidenza. Promette, soprattutto, che il 155 non verrà né ritirato né sospeso. Insomma punta i piedi. Si tratta dell’estremo tentativo di arginare una valanga? Lo sapremo a fine mese.

Rimane da capire che ruolo giocherà l’Europa in questa crisi di legittimità. E, all’interno dell’Europa, l’opinione pubblica. Quindi non perdetevi le prossime puntate.