Quanto sta accadendo a Barcellona dovrebbe far riflettere. A Cagliari come a Roma, e a Bruxelles.

Al di là di una solidarietà a poco prezzo dispensata a piene mani al popolo catalano. E’ innegabile che la società sarda sia percorsa da un bisogno, sia pure generico ed indistinto, di autodeterminazione.

L’idea che i sardi possano prendere nelle proprie mani le sorti del loro destino è più diffusa di quanto si creda. Già qualche anno fa, una ricerca condotta dall’Università di Cagliari, in collaborazione con quella di Edimburgo, aveva evidenziato dei risultati sorprendenti: i sardi si sentono più sardi che italiani, nove cittadini su dieci vorrebbero un governo locale con maggiori poteri, ma soprattutto il 40 per cento degli intervistati si spingeva a sognare l’indipendenza.

A distanza di qualche anno quella percentuale era già cresciuta di cinque punti. Infatti un sondaggio Demos- La Repubblica aveva attribuito alla Sardegna un “indice di indipendentismo” del 45 per cento.

Per decenni, la parola autodeterminazione è stata considerata un tabù intoccabile, frutto di una paura ancestrale che, nell’immaginario di molti, si materializzava nella amputazione del cordone ombelicale che lega la Sardegna alla “madre patria”.

Quasi che dietro questa parola si nascondesse la volontà di cingere l’isola di filo spinato. Un ripiegarsi inconcludente su se stessi, uno scudo che potesse metterci al riparo da una modernità aggressiva ed omologante: una separatezza non dialogante, boriosa ed arrogante.

Oggi il diritto all’autodeterminazione, in Sardegna come in Catalogna, è concepito come uno strumento per poter decidere in piena libertà, nel solo interesse dei sardi e dei catalani. Così come non fa più scalpore appellarsi al “popolo sardo”. Infatti i sardi, come i catalani, sono un popolo. Un popolo è tale se si riconosce ad esso una identità peculiare, distinta.

L’identità di un popolo è la sua storia, le sue tradizioni, la sua arte, la sua cultura, la sua lingua, il suo paesaggio, il suo essere un’isola “distante”.

Tutto questo fa di quel popolo una comunità distinta, portatrice di diritti particolari. In tutti questi anni è cresciuta la consapevolezza della inadeguatezza del patto costituzionale che lega la Sardegna all’Italia. Cosa rimane dell’Autonomia speciale? Poco o niente: una scatola vuota, priva di poteri.

L’autonomia è finita, tuona da qualche anno, inascoltato, Pietrino Soddu. Quel patto è stato disatteso e disconosciuto per primo da uno dei contraenti, lo Stato italiano. Sarebbe però sbagliato se attribuissimo tutte le colpe ad uno Stato patrigno. Molte e gravi sono le nostre responsabilità. Non solo perché la classe politica dirigente sarda non è stata capace di utilizzare a pieno tutte le potenzialità dello Statuto di Autonomia.

Ma, sopratutto, perché l’Autonomia è stata intesa, sin dall’inizio, come una rivendicazione economico-sociale. Quella che lo storico Giangiacomo Ortu definisce “Autonomia illusoria”: l’illusione di un riscatto concepito solo in termini economici. Niente a che vedere con una Autonomia che giustificava la sua specialità sulla identità e soggettività di un popolo che prima di essere italiano è sardo.

Per tutti questi motivi, la condizione della Sardegna è molto simile a quella della Catalogna. Ed allora, senza aspettare l’indizione di un referendum che chiami i cittadini a pronunciarsi sul diritto alla autodeterminazione della Sardegna, sarebbe opportuno che a Cagliari come a Roma, e a Bruxelles, si iniziasse a pensare a come dare concretamente voce ai bisogni di autodeterminazione e di autogoverno dei sardi.

Altrimenti, come è giusto, saranno essi stessi a deciderlo.