L’amica Rita Marras, in un suo recente intervento su Facebook, ha notato che «un tema sul quale il movimento indipendentista sardo ha lavorato poco è la formazione della sua nuova classe dirigente». Falla da colmare, afferma, per giungere «alla selezione di una nuova generazione di uomini e donne capaci di governare nell’interesse del bene comune dei sardi». È un punto di vista che condivido e vorrei ampliare.

Non mi interessa indicare i contenuti di questa formazione.

Esistono o stanno nascendo indipendentismi di tutti i colori politici e immagino che, se fosse capace di formare dei quadri, ciascun movimento o partito offrirebbe loro una visione del mondo adeguata al proprio credo. E indicherebbe soluzioni di governo conseguenti.

Qui il campo è aperto. Avanti. Gli indipendentisti sardi mettano in piedi una, due o tante scuole di formazione. La buona cultura politica non può fare male.

Poi però viene il momento della pratica.
Amministrare concretamente un paese o una città mostra anche a un indipendentista quanta distanza ci sia tra teoria e realtà e quanto sia difficile colmare tale distanza.

È una gara che bisogna affrontare. Gli indipendentisti devono buttarcisi dentro, proprio perché vogliono cambiare le cose e allontanarsi dalle logiche di governo tradizionali. Non si conquista la fiducia della gente, infatti, e non si allarga la platea dei consensi se non dimostrando nella pratica che si è davvero capaci di trasformare la realtà.

Ne discende un’ovvietà: abbiamo bisogno di più amministratori locali indipendentisti.
In questo momento lavora uno sparuto gruppo di sindaci, assessori e consiglieri comunali (in maggioranza o all’opposizione), che fanno dell’indipendenza della Sardegna l’obiettivo finale e ogni giorno si sforzano di spezzare i meccanismi della dipendenza, sradicandoli dalla testa e dal cuore della loro gente.
Sono troppo pochi.
I partiti e movimenti indipendentisti devono mettersi in gioco, partecipare alle amministrative e piazzare quanti più eletti possibile. È vitale farlo e sarebbe sbagliato rinunciare anche a una sola competizione.

C’è qualcosa di meno ovvio e più importante.
Governare un territorio aiuta a definire meglio la teoria, a chiudere il cerchio tornando alle basi ideali che informano l’impegno politico, per raffinarle e se necessario rettificarle. E questo indispensabile esercizio può essere più duro e ingrato, dare più grattacapi alla coscienza, chiedere più coraggio dello stesso affrontare la cittadinanza.

Cerco di essere più chiaro possibile.
Un agricoltore prende, dalle mie parti, 130 euro di sussidi a ettaro per coltivarci sopra grano che poi porta all’ammasso. Raggiunte su queste basi il più comodo equilibrio economico, rinuncia a variare o estendere le sue attività.

Io posso incoraggiarlo a cambiare parlandogli delle nostre dipendenze alimentari o della necessità di svincolarsi finalmente, almeno in parte, dalla dipendenza dai sussidi, che tarpano la sua imprenditorialità.

Posso parlargli di un mucchio di cose. Ma l’unica carta che potrebbe convincerlo a muoversi è la carta del maggiore benessere. Si muoverà, forse e con molte esitazioni, quando io gli proporrò una strada che, nell’indipendenza, gli garantirà un benessere maggiore di quello di cui gode oggi.
Non sto dicendo che è giusto, non sto dicendo che è inevitabile.

Sto dicendo che qui e ora, nella Sardegna del 2017, con la storia e il retaggio culturale che abbiamo alle spalle, a muovere prima di tutto molti, moltissimi individui, è l’interesse personale. È un fatto e di esempi del genere, quotidiani, potrei enumerarne parecchi altri.

Questa constatazione non può non influenzare la formazione teorica con cui gli indipendentisti si preparano a governare. Quella teoria dovrà basarsi sulla concretezza e trovare un punto d’incontro con la realtà, in qualche modo adattandosi ad essa, perché cercando di forzare la realtà dentro la teoria non si arriverà a niente.

E non può non influenzare il discorso pubblico degli indipendentisti.

Serve l’accortezza tattica di dare una gerarchia diversa alle nostre parole d’ordine. Piaccia o non piaccia, in prima battuta l’appello a più diritti, più libertà, più giustizia sociale, non attacca. Attacca l’appello al portafoglio, ma solo se accompagnato dall’esempio di chi il portafoglio è riuscito a riempirlo con dignità, da indipendentista, senza farsi servo e senza asservire. È un bel rebus, ma è ciò che vedo tutti i giorni.