C’è un viaggio che tutti coloro che si interrogano sul presente dell’indipendentismo dovrebbero intraprendere: visitare il Québec. Per chi non lo sa, il Québec è l’unica provincia francofona del Canada.

Definirlo così sarebbe però riduttivo. Più precisamente, il Québec è quella provincia canadese che fa sì che in British Columbia, sulla sponda opposta del Canada, quella del Pacifico, dove nessuno ormai parla più francese da almeno quattromila chilometri, i cartelli siano comunque bilingui in Inglese e in Francese.

Perché? Perché il Québec non è solo una provincia, ma una nazione. Una nazione canadese che, con la propria sovranità, nonostante occupi neanche un sesto del territorio totale del Canada, rende quest’ultimo uno stato bilingue.

Il Québec ha certamente alle spalle l’identità di uno degli stati sovrani più orgogliosi della vecchia Europa, la Francia; e le circostanze storiche che hanno portato alla formazione degli stati nelle Americhe presuppongono ragionamenti differenti rispetto a quelli che interessano le nazioni europee, comprese quelle con le più spiccate vene indipendentiste, come Catalogna e Scozia.

Ma talvolta fare degli esercizi di parallelismo, o semplicemente vedere come il tuo vicino si sia rapportato a problemi simili ai tuoi, può essere utile.

Chi visita Québec (ville), lo storico capoluogo della provincia, affacciato sul Fiume San Lorenzo sul sito ove l’esploratore francese Jacques Cartier fondò il primo forte nel 1535, dovrebbe fare due passi tra i vicoli della Città Vecchia e scendere nella zona del porto. È là che sorge il Musée de la civilisation (il Museo della Civiltà).

Lo riconoscerete: già dalle forme svettanti del progetto di Moshe Safdie l’edificio dichiara la sua dignità. Passata la porta a vetri vi troverete in un grande atrio e, probabilmente, questo sarà affollato di scolaresche. Scolaresche. Non turisti. O almeno non solo. Perché il Museo della Civiltà di Québec è famoso principalmente per la sua esposizione permanente Le temps des Québécois, “I tempi dei quebecchesi”. E questa esposizione è rivolta in primis esattamente ai quebecchesi.

Il titolo non è scelto a caso. Man mano che si visita l’esposizione e si ripercorre la storia del Québec dalla fondazione sino al presente, quel plurale “I tempi” si comprende per la dichiarazione di contemporaneità quale è, laddove “Il tempo”, singolare, passato, estraneo, avrebbe significato qualcosa che più non riguarda i vivi. Quindi “i tempi” dei quebecchesi: tanti, diversi, ma collegati gli uni agli altri sino al presente e al futuro che esso ha in grembo.

E infatti, alla fine dell’esposizione organizzata da un popolo per se stesso sorge un megaschermo con dinanzi dei bei divani perché ci si possa accomodare a riflettere. Il filmato, riportando una serie infinita interviste, porge alla gente una semplice, sfrontata e fondamentale domanda: cosa vuol dire essere quebecchesi?

Ora, può un criterio di musealizzazione incarnare la maturità di un popolo? Sì, può. Lo scopo di un’esposizione tale non è infatti l’edonismo accademico del reperto in sé o della cronaca in quanto tale, trofei da mostrare al prossimo per sentirsi meno insicuri; ma è lo sfidare questa insicurezza apertamente per comprendere come quei passati possano trovare una funzione nel presente delle persone che dovrebbero su di essi rivendicare un’appartenenza.

Allora, per esteso, cosa rende tale una nazione? Il Québec se lo chiede ancora; una domanda aperta e costantemente rivolta a se stesso, posta nonostante la sua battaglia l’abbia già vinta da tempo, anche se non è, sulla carta, uno stato indipendente.
Nel 1976, gli anni in cui sull’isola di Sardegna si cavalcava l’illusione dello scempio industriale, in Québec saliva al governo il Parti Québécois, il partito indipendentista, eletto dopo sei anni di attività frenetica, con in agenda l’indipendenza del Québec dal Canada.

Nei primi anni ’70 il partito non aveva ottenuto il controllo dell’Assemblea Nazionale del Québéc ma, cavalcando la rivendicazione politica, mise in moto un autentico risorgimento culturale, con un’attività frenetica e proattiva, concentrata anche, ma non solo, sulla rivalutazione della lingua francese. Il leader René Lévesque, in campagna elettorale, decise di mitigare le sue posizioni, ipotizzando un referendum non per la separazione totale dal Canada ma per uno statuto di sovranità, e il partito vinse.

Nel 1977 venne introdotta immediatamente La charte de la langue francaise, che ufficializzava il francese come lingua principale della provincia. Detto ciò, il referendum del 1980 sulla sovranità fallì, anche a causa della chiamata aperta del presidente Trudeau (padre) affinché il Québec fosse parte integrante del processo di emancipazione del Canada dal Regno Unito.

E anche un secondo referendum, nel 1995, fallì per pochissimo.

Sconfitte. Capitano, quando ci si prova. Nessuno però può negare che, nonostante il Québec nel suo momento più forte di rinascita politica e culturale non abbia raggiunto l’indipendenza, i quasi vent’anni di governo indipendentista abbiano portato a traguardi e rivendicazioni alla base del suo benessere e della sua prosperità attuali.

Una lunga battaglia per comprendere se stesso, esposta pannello dopo pannello in una “semplice” esposizione museale, sino alla più naturale, ma non scontata, conclusione: “Prima eravamo francesi. Poi diventammo inglesi. Dopodiché fummo canadesi, e dopo ancora franco-canadesi. Sino a tornare, alla fine, semplicemente quello che siamo; noi stessi: quebecchesi.”

Questo breve excursus nella storia di una nazione estera forse ci insegna qualcosa di paradossale e prezioso; ovvero che lo scopo della rivendicazione della propria indipendenza non è tanto ottenerla (non solo), quanto scoprirsi capaci di poterlo fare; scoprirsi aventi diritto di poterlo fare, e, provando, insistendo, credendoci anche quando sembra che nulla possa mai cambiare, scoprirsi al pieno della propria forza, dignità e consapevolezza. Scrivere la propria storia vuol dire narrarsi.

Enoi, forse, abbiamo un vantaggio. Che siamo Sardi lo abbiamo sempre saputo, lo sappiamo e continueremo a saperlo. Ma a chiederci cosa questo voglia dire abbiamo appena iniziato. Il Québec e molte altre nazioni ci mostrano che l’importante non è tanto la risposta che ci si dà, quanto il non smettere mai un solo istante di porsi la domanda; altrimenti potrebbero essere altri a suggerire risposte per conto nostro, ma per gli interessi loro.