Domani a Cagliari i pastori tornano in Piazza. Per porre con forza all’opinione pubblica e a una classe politica (imbelle e assente), la crisi terrificante che colpisce in Sardegna il loro comparto. Ai limiti del collasso: con la perdita del valore del latte del 50%, oggi deprezzato a 0,60 centesimi al litro ed il valore delle carni sceso del 40% ricorda il mio Sindacato, la Confederazione sindacale sarda (CSS) che condividendo la protesta, scenderà in Piazza con i pastori.
La “resistenza” del pastore
Pur con crisi e difficoltà immani, la pastorizia è stata storicamente l’unico comparto economico che ha sempre retto: anche a fronte degli Editti delle Chiudende, della rottura dei Trattati doganali con la Francia con Crispi, della rovinosa e fallimentare industrializzazione, dello strozzinaggio delle banche, della lingua blu. Ha retto perché si tratta dell’unica industria, endogena e autocentrata, che verticalizza la materia prima – il latte soprattutto – e crea un indotto che nessuna altra industria nell’Isola ha mai creato. L’unica “industria” legata al territorio e ai saperi tradizionali, diffusa ubiquitariamente, al contrario dell’industria per “poli”. Che presiede, salvaguardia e difende l’ambiente, che è in forte simbiosi con la storia, la tradizione, la civiltà, la cultura e la lingua sarda.
La crisi odierna
Oggi corre un serio pericolo: se non di scomparsa, certo di drastico ridimensionamento che potrebbe ridurla ad attività marginale, sia dal punto di vista economico che occupazionale. C’è infatti da chiedersi quante aziende pastorali oggi presenti in Sardegna potranno ancora “resistere” a fronte della gravissima crisi che attanaglia il comparto. Quanti occupati potranno ancora sopravvivere producendo “in perdita”. Una pluralità di motivi convergono infatti ad acuire la crisi: primo fra tutti il prezzo del latte pagato, ripeto, 60 centesimi al litro. Una infamia. Se solo pensiamo che i costi per produrlo assommano almeno a 80 centesimi. Che 25-30 anni fa veniva pagato 1000 lire: come oggi! A fronte dei mangimi che nel frattempo sono quadruplicati, insieme all’energia e al gasolio: di cui i pastori non possono più fare a meno.

Pastorizia e Pastoralismo
Si morit su pastore morit sa Sardigna intrea. Se muore il pastore e la pastorizia non muore solo una delle tante figure sociali o un comparto economico ma la Sardegna intera: il suo etnos, il suo universo culturale, artistico e rituale. Ad iniziare dall’immaginario simbolico rappresentato – fra l’altro – dalle maschere di carnevale; dall’immaginario musicale rappresentato soprattutto dal Canto a tenore, riconosciuto dall’Unesco, nel 2004, come patrimonio immateriale dell’Umanità: è il secondo riconoscimento alla Sardegna da parte dell’Unesco dopo il Nuraghe di Barumini; dallo stesso immaginario sportivo (con s’Istrumpa) e ludico (con la morra).

Ma c’è altro ancora: sottesi al pastoralismo vi sono codici e valori che storicamente hanno segnato e impregnato la civiltà sarda: il comunitarismo, i codici etici improntati sulla solidarietà e sul dono, i valori dell’individuo incentrati sulla valentia personale come coraggio e fedeltà alla parola e come via alla felicità, l’onore e tutti gli altri componenti della cultura pastorale. ”Un patrimonio secolare –scrive Bachisio Bandinu – che dall’età dei nuraghi, ha prodotto una cultura, un simbolo, una scuola di vita, un modo di essere, praticamente scomparso in Europa, che perdura ancora oggi, in Sardegna, pur nella sua forma attuale di civiltà: produzione economica, organizzazione sociale, coscienza culturale. Non come semplice revival etnologico-folklorico, come museo di tradizioni popolari, operazione di nostalgia o folklorizzazione turistica ma, pur attingendo a lingua e linguaggi, atteggiamenti e comportamenti, interessi e valori, riti e simboli del passato, pone la questione di un rapporto positivo tra locale e globale e si interroga se questa civiltà secolare sia capace di inserirsi nel processo di mondializzazione, elaborando alcuni caratteri distintivi della propria cultura per adattarsi alla nuove esigenze della contemporaneità”.

Pastoriu e intellettualità sarda
Il pastore è stato storicamente una figura centrale in Sardegna non solo dal punto di vista economico e produttivo ma anche dal punto di vista antropologico, sociale, culturale e linguistico, dando vita, in buona sostanza a gran parte della intellettualità sarda: ad artisti (pittori, scultori): penso min modo particolare a Costantino Nivola di Orani, ai nuoresi Antonio Ballero e Francesco Ciusa, all’olzaese Carmelo Floris; ai grandi avvocati nuoresi come Pietro Mastino, Luigi Oggiano e Gonario Pinna; ad Antonio Pigliaru, il grande studioso del Codice della vendetta barbaricina; a Michelangelo Pira, l’antropologo che con più lucidità in La rivolta dell’oggetto, ha descritto la lacerazione e la mutilazione culturale prodotta dalla negazione della nostra –come Sardi intendo – identità, specie linguistica; a Peppino Fiori che, soprattutto con La società del malessere, e con il romanzo Son’ ‘e taula ha condotto un’analisi serrata del fenomeno del banditismo sardo; a Bachisio Bandinu, lo scrittore che descrive, suggestivamente, l’identità sarda; al gavoese Antonello Satta, che con Cronache dal sottosuolo,la Barbagia, analizza la cultura popolare, intollerante dei normali codici o capace di adeguarli a una logica tutta sua, interna e creativa, talvolta demoniaca; all’ollolaese Michele Columbu, l’intellettuale e il politico, grande organizzatore del Movimento dei pastori negli anni ’60, che amava definirsi un pastore per pura combinazione laureato.

Pastoriu, poesia e letteratura sarda
Ma è soprattutto l’intera letteratura e poesia sarda ad essere impregnata di pastoriu: dalla Carta de Logu (un terzo abbondante delle leggi di Eleonora riguardano il mondo agropastorale), ai poeti Paolo Mossa, Luca Cubeddu e Melchiorre Murenu, Montanaru o Peppino Mereu e Diego Mele.
O pensiamo a Grazia Deledda, che dopo aver frequentato le scuole elementari, diventerà autodidatta e impara a scrivere, più che dai libri, dall’oralità. E’ lei stessa ad ammettere che più che quello che era scritto nei libri gli piacevano i racconti e le paristorias meravigliose e incredibili che ascoltava dai pastori nei paesi, nelle feste paesane, nelle novene, negli ovili delle valli nuoresi. E finanche a casa sua, ascoltando i racconti dei servi, in inverno, vicino al focolare, nelle interminabili notti.

O pensiamo ancora ai due Satta nuoresi, Salvatore con Il giorno del giudizio e Sebastiano, il “vate” cantore della sardità mitica e drammatica, incarnata soprattutto dal mondo dei pastori. Quando morì – narrano le cronache – folle di contadini, ma soprattutto di pastori e persino di banditi, scesero dalle montagne per accompagnarlo alla sua ultima dimora, memori del suo amore per l’uguaglianza e il progresso sociale e della sua passione per la patria sarda.

Per non parlare di Lussu e dei “suoi” pastori patrizi di Armungia. Quel Lussu che, parlando del Partito sardo d’azione, ebbe a scrivere: Non fu propriamente un movimento di reduci, come quello dei combattenti in tutta Italia. Fin dal primo momento fu un generale movimento popolare, sociale, politico, oltre la cerchia dei combattenti. Fu il movimento dei contadini e dei pastor”.

Qui mi fermo, non senza però almeno un accenno ai poeti improvvisatori, ieri ( Bernardo Zizi, Remundu Piras o Peppe Sotgiu) come oggi (Mario Masala, Bruno Agus, Salvatore Murgia), pastori, se non di mestiere, certo antropologicamente.