Chentu Concas e Chentu Ideas pro una “Caminera noa”. Questo lo slogan scelto per proporre l’incontro svoltosi domenica 23 luglio presso la Sala Congressi del Parco Archeologico Naturalistico di Santa Cristina di Paulilatino (OR). Chentu Ideas da mettere a confronto per iniziare un nuovo percorso politico.
Tante le domande sollevate nel corso dell’assemblea rispetto al cammino proposto, all’eterogeneità dei partecipanti, alle varie sensibilità emerse nel corso del dibattito. Iniziare un nuovo percorso politico non è mai una cosa semplice e necessita di una propensione al confronto da parte di chi proviene da differenti esperienze e intende perseguire un fine di emancipazione collettiva comune. Mi piace in tal senso pensare che questo incontro non fosse che una tappa di un processo politico ben più lungo e complesso, un tassello di un puzzle più grande che riguarda questa terra e il suo popolo. Non esattamente un nuovo inizio dunque, quanto piuttosto una occasione di confronto attorno a temi e a valori comuni e condivisi in una prospettiva di reale emancipazione sociale e nazionale.
Oggi che la crisi del sistema economico porta alla disgregazione della nostra società e dei suoi valori più saldi, fino a poco tempo fa considerati punti di riferimento incrollabili della cultura sarda, quali l’accoglienza e la solidarietà, per fare due esempi, diventa sempre più difficile contrastare l’onda di razzismo che va diffondendosi a macchia d’olio in Sardegna. Un razzismo strumentale ad una politica priva di idee e propesa a sfruttare il clima di incertezza e di confusione creata ad hoc dai media piuttosto che proporre soluzioni capaci di portare la Sardegna fuori dal baratro nel quale è rovinosamente precipitata. Diventa quindi necessario arginare una tendenza che rischia di divenire maggioritaria e che tende a dipingere l’immigrato, anziché lo Stato Italiano, il nemico da contrastare e combattere. L’immigrato sbarcato sulla nostra terra per inseguire il miraggio di una vita migliore e più dignitosa invece di una classe politica parassitaria che ha costruito i propri privilegi su una fitta rete di clientele, di distribuzione di favori e di privilegi, sottraendo diritti alla collettività e ai singoli e creando sacche di miseria e povertà sempre più ampie ed evidenti.
Il nemico è dunque l’immigrato o il sistema di sfruttamento coloniale della nostra terra e delle sue risorse?
Si è posta questa domanda fra i primi punti all’ordine del giorno, poiché la risposta rappresenta un punto cardine. Ciò che crea maggiore preoccupazione è che i dati esaminati dall’Istat ci dicono che gli immigrati rappresentano appena il 3% dell’intera posizione residente (poco più di 50mila immigrati su circa un milione e seicentomila abitanti), mentre i soggetti che spingono l’odio verso gli immigrati parlano di invasione, fino ad arrivare a tirare in ballo il pericolo di una “sostituzione di popolo”, creando così allarmismo verso un pericolo immaginario che non ha alcun riscontro nella realtà. Queste paure, però, vengono alimentate anche dalla martellante campagna di disinformazione prodotta sull’argomento dai media italiani, oltre che dai numerosissimi siti di bufale presenti in rete.
Queste tendenze che avanzano nella politica sarda rappresentano il grimaldello utile a mantenere diviso l’indipendentismo, a relegarlo ai margini della politica sarda, rendendolo una nota di colore folkloristica, del tutto inoffensiva e incapace di incidere sui processi decisionali che riguardano le nostre vite e il futuro di questa terra.
In Sardegna cominciano ad apparire movimenti che, richiamandosi ad un’area genericamente “identitaria”, mutuano gli slogan della Lega di Matteo Salvini e Casa Pound con tutto il loro bagaglio di intolleranza e razzismo. Queste organizzazioni, ancora minoritarie, utilizzano una strategia che, se incontrastata, condurrà ad una inevitabile frantumazione dell’indipendentismo, facilitando l’ascesa di una destra xenofoba e per vocazione scollegata dagli interessi dell’isola e, al contrario, interessata a salvaguardare l’unità dello Stato italiano e i suoi affari sul nostro territorio, a cominciare dalla presenza dei poligoni militari e della fabbrica di armi di Domusnovas, funzionali alla difesa dello Stato dalla fantasiosa invasione islamica.
Il ragionamento si completa nel momento in cui assistiamo ad una preoccupante sequela di dichiarazioni che arrivano da destra a da sinistra, dai sindacati e persino dai tanti sindaci che, invece di presidiare il territorio, si abbandonano ad una difesa incondizionata dei poligoni militari, della fabbrica di mine antiuomo così come, negli anni sessanta, si difendeva l’industrializzazione selvaggia della nostra isola in funzione dei posti lavoro che questa avrebbe creato, nonché della molto meno nobile causa della creazione di un bacino elettorale ad uso e consumo dell’allora sinistra italiana. Contraddizioni infami, finalizzate a tenere in piedi il sistema di dipendenza politica ed economica ad appannaggio di una borghesia compradora che negli ultimi venticinque anni ha letteralmente ridotto in ginocchio questa terra, contribuendo al rafforzamento del complesso apparato di potere coloniale italiano.
Ecco, dunque, cosa ci unisce per intraprendere un percorso comune: la critica alla globalizzazione, ai modelli dell’austerità imposti dall’Unione Europea che rendono la Sardegna una periferia marginale oggetto di sfruttamento economico e militare.
Ci unisce l’idea di una società dove la giustizia sociale, i diritti civili individuali e collettivi, il diritto ad una vita dignitosa, devono essere messi davanti a quelli del profitto e dell’egoismo del turbo capitalismo.
Ci uniscono le tante lotte che molti di noi hanno combattuto fianco a fianco contro lo sfruttamento del territorio e il furto delle risorse, contro l’idea dello Stato di rendere la Sardegna una discarica ad uso e consumo delle multinazionali italiane ed europee, un luogo dove smaltire rifiuti di ogni genere, dove installare impianti di stoccaggio di scorie radioattive e persino basi nucleari.
Ci unisce l’idea che questa terra non debba più essere considerata una terra di conquista. Ci unisce l’idea di affermare un principio di sovranità e autodeterminazione dei territori, sulla base delle loro reali necessità. Ci unisce il rifiuto della guerra, dell’occupazione militare. Il rifiuto che il nostro territorio sia luogo di sperimentazione di armi poi impiegate nei conflitti bellici (si pensi alla guerra in Iraq, in Siria, in Palestina o nello Jemen, per fare alcuni esempi concreti).
Ci uniscono lotte e valori che ci portano ad avere consapevolezza che le battaglie nelle quali siamo stati spesso fianco a fianco fanno parte di uno scontro che vede contrapposti gli interessi della Nazione Sarda, gli interessi di questo Popolo e quelli dello Stato italiano, che mai potranno trovarsi su uno stesso piano.
Ciò che dovrebbe costituire la piattaforma di partenza di un percorso politico comune è la consapevolezza che la giustizia sociale e l’idea della costruzione di una società più equa e più giusta passa attraverso l’affrancamento del Popolo sardo dal colonialismo italiano.
È ad un progetto plurale, progressista e democratico che dovremmo guardare con la consapevolezza della complessità di una sfida che ci deve portare a guidare il processo di cambiamento della nostra società. Questo specialmente oggi che tutti i partiti, da destra a sinistra, cercano di appropriarsi di termini quali sovranità, autodeterminazione e persino indipendenza.
In un momento storico nel quale tutto il dibattito politico è caratterizzato dalle tematiche e dalle battaglie storiche dell’indipendentismo, o noi ci rendiamo capaci di guidare il processo di cambiamento, o i partiti italiani riusciranno a ricondurre il malcontento popolare nell’alveo dell’autonomismo. Mutano pelle perché fiutano l’aria del cambiamento popolare per imbrigliarlo e imbavagliarlo e trarne il massimo vantaggio elettorale.
Il nostro deve essere un progetto politico capace di guardare oltre le scadenze elettorali, che parta dai territori, che scaturisca dalle esigenze delle nostre 377 comunità, che scaturisca dalle lotte reali e che sappia andare oltre l’idea di un semplice spazio di dibattito politico per costruire invece una campagna di lotte comuni necessarie ad affrontare la sfida del cambiamento. Non bisogna avere paura delle scadenze elettorali ma occorre saper costruire l’alternativa politica di governo di quest’Isola, se davvero si intende guidare un reale processo di emancipazione e di liberazione di questo Popolo.
I capisaldi di questo percorso comune non possono che essere il diritto di decidere della Nazione Sarda, il suo diritto all’autodeterminazione e la volontà di creare i presupposti per una vita migliore, per ridare dignità a ciascun individuo, dove sovranità, autodeterminazione e indipendenza non siano parole astratte sulle quali sacrificare il diritto ad una vera giustizia sociale ma principi attraverso cui affermare l’inscindibilità della lotta per l’emancipazione sociale dalla lotta di liberazione nazionale.