La mia nota in cui denunciavo la permanente e sistematica esclusione, da sempre, della letteratura in lingua sarda dal festival di Gavoi, ha suscitato vaste polemiche, consensi e dissensi. Come è giusto e legittimo che sia. Ma anche altro.

Sorvolo sui ragli. Anche perché sos corronchinos de burricu no arribant in chelu. Meno sorvolerei sull’ignoranza. Specie quando a denotarla in forme e dosi copiose e corpose sono veri e propri analfabeti che si impancano a maître à penser su fenomeni (nella fattispecie la letteratura in lingua sarda) che semplicemente ignorano.

E dunque farebbero bene, tal signori, a mettersi a studiare, prima di parlarne e soprattutto di scriverne.

Non posso invece sorvolare sulle falsificazioni cialtronesche che alcuni, vere e proprie argas de muntonargiu, hanno voluto fare del mio pensiero: rinchiudendomi in qualche nuraghe muscoso. Ostile al nuovo e a quanto si muove nel Pianeta. Qualcuno mi ha addirittura graziosamente etichettato come talebano. E sia!

A simil pensatori e critici, semplicemente, consiglio di andare a leggersi quanto ho scritto in articoli e libri: soprattutto nei miei due volumi di “Letteratura e civiltà della Sardegna”, che hanno comportato ben dieci anni di lavoro, di ricerca e di studio.

Naturalmente se ne sono capaci:di leggere e soprattutto di capire. Ad iniziare da quanto ho scritto in merito a Letteratura in lingua sarda/Letteratura sarda.

So che questa mia posizione non è condivisa da molti. Anche da molti miei amici, con cui interloquisco e lavoro da decenni. Ma voglio chiarirla fino in fondo, per una discussione franca.
A mio parere fanno parte, organicamente, della letteratura sarda autori che scrivono in sardo e in italiano ma anche autori che hanno scritto, in latino, in catalano e in castigliano:e non importa con quale certificato di nascita e con quali «contenuti» e temi.

L’importante è che questi autori trovino una condizione specifica nello «stare» per ottica e palpitazioni, per weltanschaung, per il modo con cui intendono e contemplano la vita e per tante altre cose, razionali e irrazionali, che derivano dai misteri e dalle iniziazioni dell’arte, compresa la nostalgia, che, a dispetto dei politici«realisti», come dice Borges, è la relazione migliore che un uomo possa avere con il suo paese.

L’importante è che la produzione letteraria esprima una specifica e particolare sensibilità locale, ovvero “una appartenenza totale alla cultura sarda, separata e distinta da quella italiana” diversa dunque e “irrimediabilmente altra”, come ha sostenuto Nereide Rudas e come ha scritto il critico sardo Giuseppe Marci.

L’importante è soprattutto – come ha scritto Antonello Satta – “che gli autori sappiano andare per il mondo con pistoccu in bertula, perché proprio in questo andare per il mondo, mostrano le stimmate dei sardi e, quale che sia lo scenario delle loro opere, vedono la vita alla sarda”.

Miguel de Unamuno era basco, e scriveva in castigliano, ed era anche contrario a una ripresa dell’euskera come lingua letteraria. Eppure Unamuno, se fa parte della letteratura spagnola, fa anche parte della letteratura basca e il mondo intero, così presente nella sua opera, è per lui una Bilbao dilatata: Hermanos somos todos los umanos/el mundo intero es un Bilbao màs grande.
Anche tra Italia e Sardegna vi sono appartenenze comuni: e dunque negli autori sardi vi sono anche elementi di assimilazione e di integrazione e persino “imitatori” di movimenti e stili oltre tirreno e non solo.

Pensiamo – per esempio – a due “grandi” del Primo Novecento: Sebastiano Satta e Grazia Deledda. Il primo vanta robuste ascendenze carducciane e pascoliane; la seconda è copiosamente influenzata sia dal Verismo che dai romanzieri russi di fine ottocento: eppure ambedue sono soprattutto i cantori della “sardità” e pongono al centro della loro scrittura la Sardegna e i Sardi.

Ma anche quando la Sardegna non è “protagonista” – pensiamo a Un anno sull’altipiano e Marcia su Roma e dintorni – emerge comunque l’identità etno-nazionale sarda. Nel caso di Lussu, è evidente nella sua scrittura che, come ha sostenuto autorevolmente il linguista sardo Leonardo Sole, si incardina nella cultura orale e in particolare perfino nel ritmo narrativo della fiaba sarda: fortemente ritmizzata e caratterizzata da un giro di parole essenziale e rapido.

In realtà, se vogliamo parlare di opere letterarie e, pur sapendo che appartengono al mondo, ci proponiamo di identificarle come sarde, dobbiamo valutarle non tanto per la lingua che scelgono, quanto per l’uso che ne fanno e per il loro modo di collocarsi esteticamente e non solo, in Sardegna.

In realtà l’unico modo per analizzare la Letteratura sarda –come sostiene Silvano Tagliagambe- “è valutarne l’evoluzione storica, mettendone in luce la continuità di varie caratteristiche come elementi di un’unica catena”. A patto che – cito ancora Antonello Satta – “non si vada a parare in «Madonna Evoluzione» e si tenga conto che la continuità, soprattutto in letteratura, può subire rotture, come rileva Asor Rosa, e le cose, restie ad adattarsi a storicismi stretti, possono andare, secondo la metafora di Bertrand Russel, «a macchie e sbalzi»”.

Una letteratura sarda esiste, se, come ogni letteratura, ha i tratti universali della qualità estetica e se, in più è «specifica», non tanto per questioni grammaticali e sintattiche, quanto per una questione di Identità.

Faccio solo l’esempio di “Quelli dalle labbra bianche” di Cicitu Masala: è un’opera scritta in italiano, ma possiamo pensare che non sia autenticamente sarda? Di cui esprime compiutamente identità e valori?