I piccoli incendi nei boschi li ripuliscono
periodicamente dal materiale infiammabile,
in modo che questo non abbia il tempo di accumularsi.
Prevenire gli incendi boschivi
in maniera “sistematica” per sicurezza
rende quelli estesi sempre più gravi”.

Da “Antifragile (prosperare nel disordine)”, di Nassim Nicholas Taleb.
Il Saggiatore 2013

I recenti fatti di Torino testimoniano, una volta di più, che decenni di “Protezione Civile” hanno creato una società “fragile”, incapace di adattarsi ai cambiamenti e alla adeguata percezione del rischio, in tutti i campi.
Una società che si è illusa di essere “protetta” da un’entità sovraordinata, sia durante le manifestazioni pubbliche e nella vita quotidiana, sia durante eventi meteorologici considerati estremi o incendi.
Una società “fragile” che ha perduto il senso della percezione del rischio e si comporta come se questo non esistesse.
Una società che ha perduto il “senso della morte”, anzi pretende di eliminarla dal proprio scenario, come ben ha scritto Michela Murgia in “Ave Mary”.

E’ appena iniziata la campagna antincendi e, anche quest’anno, la “rassicurante” presenza dei Canadair e degli elicotteri sui cieli di Sardegna ci assolve (?) dall’obbligo di percepire il rischio intrinseco alla nostra terra, esposta per sua propria natura al passaggio del fuoco.

In Sardegna il fuoco c’è sempre stato, c’è e ci sarà, come in tutte le regioni del mondo a clima mediterraneo e non solo.
Il fuoco è stato sempre un amico.
La parola “incendio” non esiste in lingua sarda, anche se è esistita sempre la percezione dell’attenzione da dedicare al suo uso, a partire dalla Carta de Logu.
Il fuoco è stato storicamente lo strumento di vita delle comunità rurali, strumento di civiltà dell’uomo, strumento di progresso, come ben hanno spiegato nei loro libri Ignazio Buttitta, Joan Goldsblum, Stephen Pyne e tanti altri.

In Sardegna, in particolare, l’uso del fuoco come tecnologia comunitaria sulla terra pubblica ha definito un regime ecocompatibile nel plasmare il paesaggio agro-forestale delle montagne, nei millenni, selezionando le specie e le formazioni boschive resilienti come la foresta di sughera, la macchia mediterranea, i pascoli naturali e adattandole alle esigenze della vita concreta.

L’uso del fuoco è stato una delle abilità, che oggi si sono in larga parte perdute, del mondo agropastorale, per rinnovare il pascolo e preparare la successione delle colture agrarie di anno in anno (Meloni B., 1984)
I recenti morti di inizio estate testimoniano questa perdita di abilità nel maneggio del fuoco.

In Sardegna non è stata tagliata solo la lingua, ma anche un intero archivio di conoscenze e abilità riconducibili a quelle che l’antropologa Nadine Ribet ha ricondotto alla “metis” dei greci.

La nascita dello Stato coloniale unitario ha introdotto e sovrapposto, sugli usi antichi ed esperti del fuoco, il modello americano (e prima ancora francese, derivato dalle norme del Codice Colbert a fine ‘600) della tolleranza-zero.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Non solo la tecnologia militare fatta di armate aero-terrestri e mezzi altamente contundenti non riesce a risolvere e neanche a limitare gli effetti di incendi sempre più devastanti, ma averle delegato la soluzione a problemi che invece sono di ordine sociale ed economico espone la nostra terra a pericoli sempre crescenti.

L’idea che la tecnologia risolva un problema che è legato all’abbandono della terra, all’accumulo di combustibili, alla perdita delle capacità di autoprotezione delle comunità non porta da nessuna parte.
Con la L.R. n° 8 del 2016, (la c.d. Legge forestale sarda) si è persa una occasione di trattare con ampio respiro l’argomento, introducendo solo sanzioni peraltro confuse.
La stessa legge urbanistica in discussione presso il Consiglio regionale, pur trattando in diversi momenti il concetto del rischio idrogeologico (senza fornire adeguate risposte normative peraltro), in nessun momento tratta del tema del rischio incendio.
Eppure: ogni estate interi villaggi turistici sono esposti a ondate di fuoco e muri di fiamme che mettono in pericolo centinaia di cittadini inermi e turisti incapaci di comprendere quello che sta succedendo, e nel mentre gli amministratori si limitano a protestare per il ritardo nell’arrivo dei Canadair o per la disorganizzazione dell’estinzione.
Senza guardare alla benzina accumulata nei camping, nei giardini condominiali, nel “verde” (ormai giallo e secco perché abbandonato!) pubblico e privato.

Le prospettive del cambio climatico non rassicurano rispetto al pericolo di incendi sempre più disastrosi.
Temperature crescenti, siccità ricorrenti, abbandono della terra e contemporaneo insediamento residenziale in zone pericolose come i paesaggi di macchia mediterranea costituiscono la sicura miscela esplosiva che aggrava le condizioni di insicurezza.
E neanche ulteriori dotazioni belliche potranno impedire questa tendenza.

La Regione Sarda si è appiattita sul modello legislativo italiano che pone il problema degli incendi come una questione di “protezione civile” a cui dare sempre e comunque una risposta contundente un minuto dopo che accada (mai un minuto prima).
Con lo scioglimento del Corpo Forestale dello Stato (ma in realtà già con la L. 353 del 2000) l’Italia è entrata con il Portogallo e la Grecia nel Club dei “separati in casa” (la gestione degli incendi separata dalla gestione delle foreste).
Presto ne vedremo i risultati negativi.

E’ tempo di mettere ordine a queste cose.

Occorre una legislazione regionale che preveda:
– il riconoscimento che il fuoco fa parte dei nostri ecosistemi e che è illusorio pensare di escluderlo
– il riconoscimento che occorre una gestione di sistema e non una risposta meramente emergenziale
– il riconoscimento che l’uso esperto e responsabile del fuoco su base comunitaria tradizionale può concorrere al recupero culturale della stessa e alla messa in sicurezza del proprio spazio di vita e lavoro
– il riconoscimento che la scelta dell’esclusione totale del fuoco non ha risolto e non può risolvere, anzi rischia di aggravare i problemi di emissione della CO2, della distruzione di habitat protetti, della sicurezza degli insediamenti e che, anzi, è proprio questa esclusione la causa dei cosidetti “grandi incendi forestali”
– il riconoscimento che si deve passare dallo attuale sforzo economico-finanziario a favore dell’estinzione a quello della concreta prevenzione nelle varie aree regionali della Sardegna a seconda delle tipicità di paesaggio con concrete azioni di selvicoltura preventiva, gestione dei punti critici, gestione dei combustibili, coinvolgendo il mondo agropastorale anche con adeguati progetti PSR in cui l’azienda agricola e pastorale sia riconosciuta – per concrete azioni di mezza in sicurezza – un presidio positivo per l’intero territorio. In questo senso occorre un’adeguata pianificazione locale a scala di paesaggio ampio (non i piani comunali previsti dalle determinazioni di Bertolaso del 2007, che sono piani di pronto soccorso non certo di eliminazione del rischio!) che evidenzi le modalità di gestione e ne preveda la realizzazione concreta.
– Il riconoscimento che l’approccio al fuoco richiede alta professionalità e formazione che si deve poter svolgere tutto l’anno e non solo durante l’estate, linguaggi di comunicazione comuni sulla sicurezza, capacità di analisi e approccio alle strategie sul campo favorendo le esperienze e le professionalità esistenti e potenziandole.
– Il riconoscimento dell’educazione ambientale mirata alla conoscenza del fuoco come fattore ecologico e non come “nemico”

Occorre inoltre riunire in forme di coordinamento più stringente la variegata realtà del volontariato e dei barraccelli, (come ad esempio succede nella Regione Piemonte, dove opera solo un Corpo di volontariato antincendi ben attrezzato e professionalizzato) nell’ottica di un consistente miglioramento della formazione insieme al Corpo Forestale e al personale dell’Ag. Forestas, magari riducendo i “grandi numeri” (nel Piano AIB appena approvato si parla di 10.000 addetti!) e aumentando semmai le funzionalità operative e le specialità di intervento con certificazioni appropriate non solo sanitarie ma anche professionali.

Occorre in definitiva cambiare approccio e paradigma, passando dall’idea di “protezione” (che indica una delega a qualche entità superiore) all’idea di “prevenzione” (ogni componente la società si intende responsabilizzato nei propri comportamenti concreti) civile.
Un cambio di paradigma che sia anche occasione di superare la forte dipendenza dal modelli eterodiretto della Protezione Civile italiana e costituisca occasione e opportunità di autodeterminazione per le specificità territoriali e storiche della nostra terra.

 

Questo testo è stato redatto sulla base delle riflessioni di Giuseppe Mariano Delogu esposte nel suo libro “Dalla parte del Fuoco, ovvero il paradosso di Bambi”, il Maestrale 2013, Nuoro