La Sardegna è un’altra cosa, scriveva David Herbert Lawrence, scrittore britannico vissuto a cavallo tra il 1800 e il 1900, collocando la nostra isola fuori dallo spazio e dal tempo.

Nel suo libro di viaggio “Mare e Sardegna” edito nel 1921, l’autore riporta una serie di impressioni e di riflessioni che, a distanza di un secolo, non risulterebbero fuori moda. Ne consegue che i sistemi dirigenziali e politici – di tutti i livelli – della nostra isola, dovrebbero pianificare un’idea di Sardegna pensando a un’altra cosa rispetto ai modelli “continentali”.

Così non è stato con la L. 588 del 11 giugno 1962 denominata, per semplicità, piano di rinascita, dove, al contrario dell’assunto di cui sopra, si scimmiottavano modelli esistenti nella speranza che potessero durare in eterno rendendo la nostra isola virtuosa sotto i profili economico e sociale ma che in realtà nascondevano la volontà dei gruppi al potere di controllare aziende e assunzioni con ritorno certo nelle urne.

Come la storia ha dimostrato più volte, i modelli calati dall’alto che non prevedono lo sforzo unanime dei soggetti provenienti dal basso non hanno – e non possono avere – lunga vita, in questo caso neppure il tempo di una generazione.

Il danno più grave, tuttavia, è l’aver condannato un’altra generazione, quella dei figli della fantomatica rinascita, ad una idea di dipendenza: ci è stato insegnato che nulla è più importante del posto fisso e che per ottenerlo avremmo dovuto corteggiare il consigliere regionale che viene nei nostri paesi solo durante le sagre, ci è stato insegnato che vincere un bando pubblico è più importante che sviluppare un business plan e che se volevamo fare impresa dovevamo conoscere qualcuno.

Ci è stato insegnato ad essere dipendenti.
Sulla base di questi ragionamenti che descrivono un modello fallimentare, la futura classe dirigente ha il compito di pensare la Sardegna in termini moderni sulla base delle specificità e delle peculiarità che l’hanno portata ad essere definita da Lawrence “un’altra cosa”.

E lo deve fare, a mio avviso, partendo dalla rivalutazione e dalla comprensione storica, dalla dimensione geografica e dalle condizioni socio-economiche che assumono valore caratterizzante specialmente nei piccoli paesi. Lo deve fare attraverso un atto di coraggio e di indipendenza mentale che ripensi la Sardegna dei prossimi anni, interrompendo il corso degli eventi fatto, perlopiù, di rattoppi nella umilissima prospettiva di salvare il salvabile.

Servirebbe una rottura col passato e uno slancio intellettuale che parta dalla riscrittura dello Statuto sardo, mettendo in seria discussione l’attuale e infruttuoso rapporto con lo Stato, dallo studio nelle scuole della nostra lingua e della nostra storia perché per sapere dove possiamo andare dobbiamo prima sapere chi siamo e da dove veniamo, dall’individuazione degli assets economici portanti (agroindustria, turismo e cultura, per citarne qualcuno).

La nuova classe dirigente, la mia è una preghiera, ancor prima che un desiderio, deve fare questo nella consapevolezza che nulla è eterno e che, citando De Gasperi, occorre pensare alle prossime generazioni e non alle prossime elezioni.