Ieri ho percorso la strada, che in salita porta ad Osidda, partendo da Bitti e attraversando il pianoro di San Giovanni.

Il luogo dove a cavallo fra la fine degli anni settanta e i primi degli ottanta, si progettò il risveglio economico di Bitti e delle comunità limitrofe costruendo una fabbrica di filati che chiudesse il cerchio delle produzioni derivate dall’allevamento degli ovini che, in quella zona sono numerosi.

Fu una visione cieca, mi si perdoni l’ossimoro, di qualche politico o forse più d’uno, che in quel progetto mise speranze di riqualifica economica, poi risultate vane a distanza di qualche decennio, per un territorio vasto quanto di inestimabile valore sotto l’aspetto naturalistico.

La fabbrica, come spesso è accaduto e ancora accade in Sardegna, chiuse poiché risultò particolarmente dispendioso e assai macchinoso il processo produttivo, dunque dichiarato impraticabile, fallimentare e, non certo trascurabile anche altamente inquinante. Sbiadì, dunque come la nebbia in un mattino di sole il sogno della trasformazione di quel luogo in un polo tessile al pari di altri siti storicamente noti della penisola.

Qualche tempo fa attraversai quella piana per scrivere un pezzo per un blog turistico, incantata da questo luogo dove tutto sembrava recuperabile. Ripropongo qui un pezzo di ciò che scrissi allora e che oggi risulta anacronistico e fuori luogo giacché, complice la processionaria e la dissennatezza umana, nulla è rimasto o quasi di ciò che avevo descritto.

“Lasciata la chiassosa costa e il rumore di ferraglia degli aerei delle navi, è possibile introdursi nel cuore dell’Isola e visitare luoghi assenti dai circuiti turistici canonici. Si può abbandonare l’auto e camminare a piedi o in bicicletta e comunque sempre fuori dalla morsa del tempo, che qui assume contorni sfumati e ritmi blandi. I treni, che pure si insinuano lungo antiche vie ferrate, in Sardegna assurgono al ruolo di rime cantate, melodie di bronzo che risuonano come voci di mitiche Janas e gli spostamenti in pullman, utili per recarsi da un luogo all’altro nel cuore dell’isola, sono vecchi signori che arrancano come inguaribili asmatici, su per le strade tortuose, in grado però di regalare al viaggiatore, istantanee di vita remota. Il mio viaggio all’interno della Sardegna più autentica procede, senza una meta geografica precisa, lasciandomi guidare dai sensi, che in questi luoghi sono sempre allerta, unico navigatore consentito e che certamente non inganna.

Vado ad Osidda, una sorta di “dogana del vento” come titolava il suo bel romanzo Folco Quilici, non ovviamente nel senso più stretto del contenuto del libro che, racconta fatti distanti da questi luoghi e dall’animo mite di chi li abita. Siamo a circa 650 mt sul livello del mare, il vento soffia sempre, incalzando i candidi giganti di metallo con ali che roteano in un moto perpetuo e insondabili avvisano i viaggiatori che, anche qui la modernità è arrivata imperante, a dispetto del tempo quieto che ispira serenità d’animo.

I visitatori arrivano alla ricerca di quello che” (……) altrove, sopratutto lungo la costa non trovano. Curiosi, si introducono per le viuzze strette alla ricerca di splendide dimore di granito perfettamente conservate e che riportano alla memoria i fasti andati di questa antica civiltà. Osano inerpicarsi su per le montagne e nei sentieri isolati alla ricerca di quello che, complice certa letteratura, ha evidenziato come il mondo arcaico dei pastori, le loro solitudini rigorose e severe che pretendono impegno e fatica e che spesso subiscono l’inflessibilità del tempo che avanza, a dispetto dei sassi granitici, che qui assumono il colore del cielo d’inverno.

Qui la geologia e le architetture non condividono l’ordine semantico acquisito nei villaggi turistici, dove tutto è regolato da piani paesaggistici e da arditi compendi architettonici, frutto di impellenze diverse”.(…..) Qui, dove tutto doveva essere più naturale, dove i sassi sono rimasti li, impiantati fra la terra e il cielo, abbandonati da un Dio che andava di fretta, confuso dalla moltitudine di sughere sanguigne che qui crescevano abbondanti, ora c’è un deserto di tronchi bruciati, divorati da un cancro che li consuma inesorabilmente dall’interno.

E dove ondeggiavano sterminati campi di avena e biada e il trifoglio rosseggiava sotto il primo sole estivo,c’è una sconfinata e desolante distesa di pannelli bluastri, conficcati sulla terra con le loro rugginose radici metalliche. Nulla di ciò che ricordavo esiste più. Represso sotto tonnellate di ferro, cadmio e arsenico, materiali che compongono i pannelli solari e ancora, sterilizzato da diserbanti che, irrorati come acqua santa, inaridiscono quel vasto territorio un tempo ridente e fonte di orgoglioso riscatto economico per la dinastia dei pastori che, li in quelle terre hanno regnato per secoli.

Di quel che ricordo e scritto qualche tempo fa, non rimane nulla più ormai, se non una distesa di 20 ettari, fossilizzati sotto il peso venefico della cupidigia umana. 20 Ettari, sottratti prima agli allevamenti e alle colture per darli all’industria fallimentare, restituiti poi alla naturale predisposizione ed infine, ancora venduti alle multinazionali senza scrupoli che, ancora una volta saccheggiano la nostra terra per pochi danari, in nome e per conto delle nuove energie, lasciandoci in eredità una moderna e predesertica Cirenaica, capace soltanto di lasciarci desolazione, povertà, forse briciole di ricchezza per pochi, nuove patologie che attentano alla vita di molti e come sicari silenti, aspettano che l’agonia si concluda.

Rimangono, superbi e insolenti, le torri metalliche, candide come fantasmi, con le loro ombre di morte a vigilare su ciò che resta e sarà, quello che un tempo fu il regno incontrastato degli uomini di bronzo, dei re pastori e della storia che corre sulle nostre vene e dell’orgoglio che palpitava nel nostro cuore di Sardi.