Ora o mai più
La nave attracca a Porto Torres. La nave, il simbolo sempiterno di chi è stato costretto ad andarsene. La nave di una compagnia che specula sul bisogno e sul diritto di un popolo di tornare nella propria terra, terra che di bandiera ha tutto tranne che una compagnia.

Ciao, Isola, è da tanto che non ci si vede. Ma la meraviglia del ritorno, la fulgida brillantezza dell’idealizzazione di te si sfalda a ogni chilometro di 131 verso sud, sino a sgretolarsi del tutto quando da una curva compare la nota carcassa del cementificio di Scala di Giocca, con un urlo di dignità e collera che sventola appeso sulla sommità della ciminiera più alta: P O V E R T À. E in un istante ti accorgi; ti ricordi, il perché tu stia scendendo da una nave, il perché ci sia salito in principio, e le parole che non riuscirai a dire quando la domanda te la farà tuo figlio.

Ciao, Isola, scrivo a te. Sai, da poco mi sono trovato nell’imbarazzo di non sapere spiegare l’indipendentismo a una persona, in Italia. Era una persona cara, disposta ad ascoltare, ma scettica. E io non sono riuscito a spiegargli che non si trattava di giovane e gretto “brexismo”, non si trattava di padani elmi vichinghi di plastica, ma di tutt’altro; qualcosa di più antico, qualcosa di più moderno. E, mortificato, mi sono inalberato, esprimendomi come coloro da cui cercavo di differenziarmi; come se la colpa fosse mia, come se allora fossi io, in fondo, a non crederci abbastanza o a crederci nel modo sbagliato. Poi ho compreso che io non dovevo spiegare proprio un accidenti a nessuno. Perché l’essere obbligato a spiegarti è la prima e l’ultima violenza, laddove ti si dovrebbe essere riconosciuto semplicemente il diritto di essere quello che sei. Il diritto di essere. Il diritto di rifiutare.

Chilometri e chilometri di terra blindata, interdetta, per giochi di guerra non nostra; veleni, veleni e veleni, silenzio, omertà e connivenza; e ciminiere anacronistiche, ad avvelenare il futuro, per un tozzo di presente e in spregio al passato, accettando il ricatto del lavoro in mille, per ipotecarne diecimila ora e la totalità dopo. Dopo. Parola sempre troppo clemente, che rimanda a un futuro non ben definito l’onere di risolvere il presente. Dopo quando? Corre la 131 verso sud e la percezione, in un nitido momento di chiarezza, è lampante: non c’è un dopo. Non è rimasto più nessuno.

Nel mio comune, Carbonia, nel mese di aprile sono nati 25 bambini e sono morte 140 persone. Fate due calcoli. Estendeteli di anno in anno, in ogni cittadina e paese dell’Isola, e immaginate cosa saremo in 10 anni. Non saremo. Rimarranno politici arrivisti, vecchi disillusi, e disperati, approdati in questa terra per caso, riconoscenti più di certi sardi, ma che potrebbero essere in qualunque altro luogo, e per la loro prospettiva di perseguitati sarebbe – giustamente – uguale.

Quindi? Stiamo morendo. E non storcete il naso. Stiamo morendo. Aprite un libro di storia: Nihil sub sole novi. La Storia non ha mai perdonato gli indecisi e non li perdonerà a questo giro. Perché quando saremo la metà della metà, chi è che reclamerà il proprio diritto di dire basta con un voto? E se anche qualcuno ancora lo farà, a quel punto i numeri basteranno? Chi rievocherà, tra dieci anni o venti, quell’idea di Sardegna libera, sovrana, indipendente? Il connivente o l’estraneo che non ha colpa? E così, nel più infido “divide et impera”, ancora una volta e per sempre sarà servitù. Militare, economica, politica, identitaria, sociale… perché quelle parole i nostri figli le esigeranno. Essi ci giudicheranno, e a ragione. Chi ha nel cuore quell’idea di Sardegna l’avrà lasciata da tempo per poter sopravvivere, e chi è rimasto la vedrà sfumare di fronte alle proprie contraddizioni.

E lo ammetto. Io stesso, e tanti, tanti là fuori, sono stati genuinamente respinti da un certo indipendentismo, e lo sono ancora. Un indipendentismo ripiegato su se stesso, gretto e diviso, concentrato più sull’insulto in limba all’italico sovrano che a generare alternative politiche concrete. Ed è legittimo, perché non siamo biscotti, e la stessa bandiera non ha il potere di farci risultare simpatici gli uni agli altri a prescindere… È legittimo, ma la Storia sogghigna e banchetta delle inimicizie da cortile e il tempo passa, e la narrazione di noi stessi “pocos, loco y mal unidos” diventa realtà. Diventa P O V E R T À. Diventa degrado. Fame. Perché ogni nazione è una narrazione, e il cosa sei diverrà ineluttabilmente il cosa tu racconti di te stesso.

E allora voi, là fuori, fratelli miei, che guardate questa terra con le lacrime agli occhi ripetete con me: Indipendenza. Ripetetelo. Indipendenza. Non abbiate paura, non diverrete mai persone che non volete essere, perché condividere un’idea politica non vuol dire essere fatti a stampino. Indipendenza. Ripetetelo, e insieme cerchiamo di capire che non sarà l’apocalisse; che non avrete dall’oggi a domani scenari distopici di passaporti alle frontiere. Ripetiamo: indipendenza; e capiamo che sarà un semplice inizio, una maggioranza di governo che con il solo essere stata eletta dirà alla Storia BASTA; dirà alla Storia che ci siamo stancati. Come Scozia e Catalogna, come i cugini corsi, nell’esempio più puro dell’Europa dei popoli, si guarderà l’oppressore di turno da una nuova posizione di forza, con potere contrattuale concreto, perché pronti a fare il passo, se necessario.

Indipendenza. Ripetiamolo e non sentiamoci volgari e ignoranti o incompresi, perché quella colpa ce l’hanno insegnata gli occhi del giudizio di chi ci affama. E se questo è il passo emotivo che a molti sarà richiesto, che si metta una mano sulla coscienza una volta per tutte anche chi una certa immagine ostile di indipendentismo l’ha creata; si mettano la mano sulla coscienza i “leader” indipendentisti e ai nomi altisonanti che invocano unità di intenti facciano seguire un’unità vera. Ci sarà tempo, dopo, di riscoprirsi in disaccordo; ci sarà tempo per discutere insieme sulle soluzioni, facendo anche tesoro del contraddittorio. Ci sarà tempo… forse, ma soltanto se una volta, una volta sola e per tutte, ci si prenderà per mano e si presenterà alla gente una coalizione che possa giocare alla pari con le regole truffaldine decise da chi comanda il gioco; una coalizione che dimostri alla gente che qualcosa è cambiato.

Ci siamo. Ora ci siamo ancora. All’apice della nostra coscienza, al limite della nostra sopportazione. Ci siamo. Ma non pensiate che questo lusso ci sia concesso ancora a lungo. Ora ci siamo. Ora o mai più.

*scrittore, editore e traduttore