A differenza di Alessandro Mongili, non ho molti motivi per fidarmi delle analisi di Vito Biolchini.

Lo riconosco come interlocutore, ma ho ben presente le posizioni da lui assunte nel corso degli anni.

So quel che ha fatto per boicottare e ridicolizzare la coraggiosa esperienza di Sardegna Possibile e di Michela Murgia, cercando più volte di svilire quell’importante risultato elettorale.

So che ha scelto Pigliaru, nel 2014.

So che per differenziarsi da me, non ha esitato a rimanere neutrale (e ironico) quando a Cagliari un certo Silvestrone veniva accolto come un salvatore e io cercavo di aprire gli occhi all’opinione pubblica.

So che altrettanto ha fatto quando scrivevo di Cappellacci e dell’inchiesta eolico e P3, di Lombardo ed eolico e baby pensioni, di Maninchedda e del suo essere stampella del sistema di potere Pd.

Fino al recente episodio del festival di Bauladu, in cui – in mia presenza – si è esibito in un’opera di non riconoscimento del mio lavoro da direttore de L’Unione. Un’esibizione che – non solo ai miei occhi – non gli ha fatto onore.

Ma nessuno di noi può permettersi di anteporre le ferite personali al bene del dibattito sul futuro della Sardegna.

Non ho vendette da consumare né primati da ricercare e ritengo anzi necessario avere un rapporto civile e costruttivo con tutti, specie con chi mi invita a un confronto nel merito.

Dunque, in questo caso, grazie a Vito per la sollecitazione ed ecco la mia risposta.

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Un mio vecchio maestro mi ricordava che non bisognerebbe mai abusarne.
Eppure le citazioni, a volte, possono aiutare a rimettere in fila i pensieri.
Dunque giova ricordare che se Eraclito sentenziava che “la verità ama nascondersi”, l’economista e sociologo Vilfredo Pareto – un paio di secoli dopo – precisava che “conoscere la verità è importante ma non sempre è opportuno e utile”.
Cercherò, dunque, di sviluppare dei ragionamenti, senza dimenticare questi due assunti.

Il punto di partenza è l’approccio al problema – manifestato da Vito e da altri – della costruzione di un’alternativa al falso bipolarismo che ha occupato la scena politica negli ultimi 23 anni – e alla costruzione di una proposta nuova che parta dalla riscoperta di un specificità sarda. Punto di partenza necessario per elaborare una piattaforma di governo imperniata su ricette innovative, moderne, solidali. E sarde.

Nell’articolo di Vito trovo molto alchimismo politico e poca attenzione agli ultimi, a quelli che sono rimasti indietro, ai senza lavoro (giovani o quarantenni e cinquantenni che siano), al modello di sviluppo che occorrerebbe codificare, studiare e sperimentare. Agli studi, all’acquisizione dei dati e all’analisi di essi, che occorrerebbe mettere in campo prima di scrivere – in maniera partecipata – questa piattaforma.

Si parla di sostenibilità, è vero. Ma la si limita alla pratica quotidiana dell’esercizio di governo.

Già più di quindici anni fa – da cronista – mi capitò di raccontare la desertificazione del polo industriale di Macomer e dei vicini insediamenti produttivi di Ottana-Bolotana.

Le aziende tessili e chimiche, artefici dell’effimero boom economico di quei territori, smobilitavano. Dopo aver incamerato cospicui finanziamenti statali e aver alimentato le prospettive di crescita e benessere, lasciavano nelle campagne – violentate da ciminiere, cemento, fumi e liquami mortiferi – disinganni e promesse tradite.

Per fare un esempio – descrivendo una realtà distante ma simile a quella del martoriato Sulcis – il fallimento del piano industriale e il peso che ha avuto nell’economia dell’Isola lo si può raccontare risalendo la catena del Marghine per poi scendere verso il mare e raggiungere le coste della Planargia.

Attraversando campagne che furono grassi pascoli, dominate da nuraghi che sfidano il tempo, la vista delle aziende di Tossilo e Suni – oggi vuote e cadenti – e dei caseifici diroccati ci offende.

Questa è sostenibilità?

Io credo che il punto di partenza del dibattito debba essere molto più avanzato, altrimenti corriamo il rischio di farlo nascere morto. Tirando la volata ai soliti noti e ottenendo l’effetto di impedire – ancora una volta – la nascita di un’alternativa possibile, inclusiva, democratica, solidale. E sarda.

“La resurrezione di un popolo non può farsi con la menzogna; menzogna sono e saranno sempre tutti i concetti politici fondati sulle opportunità passeggere, su transazioni sull’avvenire e un passato non nostro”. Sapete chi lo disse? Giuseppe Mazzini, uno di quelli che contribuì alla tanto esecrata Unità d’Italia.

E’ una frase giusta, un Vangelo.
Fa il paio con un vecchio discorso di Enrico Berlinguer, che ho visto circolare in questi giorni sui social, a proposito della necessità di difendere tutte le libertà, tranne una: quella di sfruttare il lavoro di un altro essere umano.

Se cito Mazzini sono per la fusione perfetta – pre Unità d’Italia, d’accordo – e per i suoi effetti, ancora riscontrabili? E se cito Berlinguer significa che sogno una Sardegna collettivizzata, socialista o comunista?

Cerchiamo di essere seri. E’ finito e deve finire il tempo delle strumentalizzazioni e delle semplificazioni. Dobbiamo invece sforzarci di riunirci su una base comune di valori, non più patrimonio esclusivo delle vecchie famiglie politiche del XIX e XX secolo. Non per fare un esercizio di modernità ma per sintonizzarci il più possibile, senza per questo farci travolgere, con i sentimenti diffusi di un popolo deluso, fiaccato, distaccato e a volte non più costruttivo.

Dobbiamo intercettarne il grido di dolore cercando di incanalare le pulsioni verso una riscossa democratica e non populista, disfattista, xenofoba e “peggiorista”.

Dobbiamo avere il coraggio di preparare un’alternativa moderna, inclusiva, democratica e sarda. In assoluta discontinuità con quel che abbiamo visto, vissuto, sperimentato e subito negli ultimi 23 anni.

Dobbiamo avere il coraggio di dire che l’assistenzialismo non ha mai risolto e mai risolverà i problemi della Sardegna.

Dobbiamo avere l’onestà di dire che la Regione ha allargato a dismisura l’orizzonte dei suoi interessi, diventando un mostro burocratico che decide su tutto e non ottiene niente. Un ente multiforme che mette i bastoni tra le ruote ai Comuni, invece di aiutarli. Che si parcellizza in enti e partecipate, disperdendo per strada risorse, energie e speranze.

Dobbiamo trovare la strada per pensare a come l’economia di Stato possa tornare a essere l’economia del borgo. A come trasformare la politica dei partiti in politica sociale, la cultura della tradizione in tradizione della cultura.

Dobbiamo pensare a come lavorare proficuamente con l’Europa, rendendoci conto che comunque in questo mondo globale l’Europa non è tutto: il confronto, lo scambio e il dialogo devono ripartire dalle nostre comunità e dai nostri territori. Principalmente da quelli di cui è stata già decretata la morte.

Una fine contro la quale occorre battersi con coraggio. Perché non c’è niente di ineluttabile. Senza per questo tornare all’isolamento. Anzi, ripartendo da queste specificità per andare incontro a un mondo che cambia e che rischia di travolgerci.

Il mare non è nostro nemico, occorre vincere questa paura. Un mare da percorrere, con la finalità di rinsaldare il dialogo con i nostri più immediati vicini, come la più comoda delle autostrade, mezzo vitale di comunicazione e non di fatale limitazione.

La vocazione della nostra terra non è quella della petrolchimica, né della metallurgia. Non è incarnata dall’industria pesante o dalle partecipazioni statali. Quel che già c’è va forse salvato per il contingente, ma non rappresenta il nostro futuro.

Abbiamo mille strade davanti, e dobbiamo trovare la forza di accordarci per capire quali sono le più proficue da seguire, in vera autonomia.

Perché il nostro interlocutore – quello che si è fatto principe e quello a cui la nostra classe politica è vergognosamente prona – è uno Stato, occupato da partiti diventati comitati d’affari, che si materializza come un dinosauro lento di riflessi e dall’insaziabile fame, divoratore di risorse e calpestatore di bilanci e accordi.

Un Gigante dai piedi di argilla, una barca con mille falle, che a dispetto dei suoi proclami si rifugia nella sempre antica ricetta del “tassa e spendi”, repentinamente trasformata nel “tassa e spreca”.

Sempre per restare nell’alveo delle citazioni, non è lontano il giorno in cui qualche ministro dell’Economia (supportato da chissà quale epigono nostrano) penserà di far diventare realtà la vicenda dei “Quaranta scudi” di Voltaire, in cui si pensa di poter istituire una tassa sull’intelligenza: una gabella che finalmente in molti saranno felici di pagare. Specialmente i cretini di ogni età e risma.

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Detto tutto questo, possiamo dire che è tempo di indipendenza? Io credo sia anzitutto il tempo in cui si debba smettere di prendere in giro la gente e ci si debba assumere la responsabilità di abbandonare le velleità di principio per sposare la proposta di autogoverno.

Potremmo, ad esempio, cominciare a essere indipendenti dai partiti romani, quelli che hanno sempre scelto per noi leader e programmi.

Potremmo, ad esempio, iniziare a utilizzare al massimo le prerogative che già l’attuale Statuto autonomistico ci assegna, senza avere paura di pensare a una sua successiva riscrittura e aggiornamento. E iniziare a parlare di autodeterminazione.

Potremmo iniziare a fare bene le cose che ci competono, proponendo noi le soluzioni e indicando tempi, modi e programmi.

Dobbiamo costruire una nuova classe dirigente, investire risorse in confronto e dibattito, in attesa di avere la responsabilità di investirne – tante, tantissime – in istruzione, cultura, formazione, modernità.

Dobbiamo mettere barriere non tanto in ingresso, quanto in uscita. Scoraggiare la fuga dei cervelli e delle migliori intelligenze, offrendo loro la possibilità di formarsi nel mondo ma con l’intesa che la loro opera e la loro crescita dovrà poi essere messa al servizio della Sardegna.

Mesi fa avevo proposto alle attuali opposizioni in Consiglio regionale – quelle, naturalmente, disposte a staccarsi dalla centrale di potere romana – di iniziare loro a tracciare la strada, pensando a un nuovo forum programmatico, che mi sarebbe piaciuto aperto a tutte le forze sociali e politiche che sono presenti nella società.

L’appello è rimasto sostanzialmente inascoltato, se si eccettua il dibattito interno in corso nel Psd’Az. Anzi, è stato tutto un fiorire di nuovi riposizionamenti e apparentamenti con piccoli ras italiani.

Non esistono soluzioni facili e la politica – ancor più in questo momento di forte instabilità – non sembra proporne di più chiare. La forze delle idee e il risveglio delle coscienze possono essere il principio motore dello smantellamento di un sistema che, regalando ben più nocive illusioni, perpetua se stesso, costringe all’immobilismo e usa violenza contro la natura dell’uomo.

Sentiamo ancora parlare di modelli vecchi, che la vecchia politica – tutta rituali e piroette, tecnicismi e moralità a volte solo ostentata – cerca di riproporre quando invece ne servirebbero di nuovi, impostati sulla valorizzazione e non sullo sfruttamento del territorio.

Non sulla dipendenza della povera gente dal potere politico, ma sullo sviluppo che nasca dal basso, dalle attitudini tradizionali delle nostre popolazioni, troppo spesso non assecondate.
Servirebbero ricette coraggiose, in grado di sparigliare un gioco altrimenti destinato ad alimentare un sistema poco virtuoso e incapace di produce ricchezza diffusa.

Non è che il teatrino degli annunci, con la continuità amministrativa (e, in alcuni casi, politica), con l’iperattivismo di maniera che si cambiano davvero le cose.

Anzi, si modificano solo i nomi dei gestori del sistema, si sposta un po’ la geografia del potere di qualche ras locale.

È per questo che io non metto veti ma chiedo cambiamento reale.

È per questo che credo che un’altra idea di Sardegna sia possibile e possa essere studiata, proposta, rappresentata, interpretata è portata al governo da una nuova classe politica.

Partendo dai partiti che ci sono e da quelli che potranno nascere ma soprattutto dall’emersione di una nuova classe dirigente composta da imprenditori, professionisti, ricercatori, amministratori locali e lavoratori organizzati.

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Girando la Sardegna in questi mesi, con tanti saluti a chi crede che certe dinamiche siano solo un passatempo sui social, ho incontrato realtà vive e desiderose di impegnarsi.

Vedremo nel 2019 se questo lavoro di semina potrà portare a un primo raccolto e se saranno emerse figure in grado di federare, unire, incanalare positivamente tante piccole grandi forze positive, oggi disperse.

Le cose muteranno solo quando la gente si renderà conto che non cambierà mai niente finché ci faremo strumento di un sistema malato, unicamente funzionale all’importazione di idee, di beni, di servizi, di imprenditori.

La Sardegna non può ridursi a un combinato disposto tra consumatori di cose prodotte da altri, manodopera di basso livello per intraprese che non generano effetti virtuosi per l’intero sistema economico locale. Tanto meno può essere concepita come gigantesca discarica di veleni industriali e scorie nucleari. Nel conto entrano anche le servitù militari, reclamate col solito ricatto degli stipendi.

Questo sistema non può reggere e niente potrà evolversi – e dunque migliorare – finché la politica resterà sorda al cambiamento, compattandosi in un gigantesco muro di gomma, perfettamente attrezzato a resistere nel difendere lo status quo.

Il mio orizzonte è quello dell’autogoverno, dell’autodeterminazione, dell’indipendenza. Una sfida culturale ed economica, un cammino forse lungo ma che merita di essere percorso.

La sfida non è fare cose vecchie meglio di altri ma di farne di totalmente nuove.

In quest’ultima frase è riassunta la mia visione del futuro.