Caro De Bortoli,

proprio mentre si andava facendo strada l’idea di chiedere una rinegoziazione dei patti europei (vedi l’ultimo editoriale di Alesina e Giavazzi sul tuo stesso quotidiano), ho letto il tuo articolo odierno sui danni in cui incorrerebbe il Paese se decidesse di uscire dall’euro.

Se ho ben capito, ti avvali del modello di Prometeia per avvalorare queste tue previsioni, ammantate di un’oggettività che non ha radici scientifiche, perché non può averle. Se il modello usato è di tipo econometrico, esso non può cogliere che cosa accadrebbe se l’Italia uscisse dall’euro, perché l’anomalia dell’evento non può essere colto negli eventi del passato che sono alla base di qualsiasi di questi calcoli.

I risultati potrebbero essere usati se i grafici venissero presentati con le osservazioni statistiche del passato, a cominciare dal 1992, data in cui il Trattato di Maastricht è stato firmato inducendo cambiamenti nella politica monetaria prima e poi in quella fiscale.

Queste osservazioni andrebbero interpolate con una linea di trend che parte da quella data e continua nei grafici che hai riportato nel tuo articolo. Così otterresti un’imparziale stima dei costi che avresti stando nell’euro o uscendone, che sarebbe rozza in entrambi i sensi, ma certamente meno seguendo la linea di trend.

Allo stato dei fatti, i fondamentali dell’economia non sono tali da giustificare l’attesa di una svalutazione della neo-lira: 1. abbiamo un surplus relativamente elevato di bilancia corrente estera, che The Economist pone nell’ordine di 2,5% di PIL (47,5 mld di dollari), un risparmio in eccesso che l’Italia non può mobilitare perché i privati non investono e lo Stato non può spendere, anzi deve accrescere (vedi manovra in corso); 2. l’inflazione al consumo è di poco inferiore al resto dell’euroarea; 3.

La crescita della domanda aggregata è molto fiacca, quasi la metà dell’euroarea, e la produzione industriale in calo (-0,5%). Le ragioni economiche di una svalutazione grave, seguita dall’inflazione e da una crescita reale modesta, come tu e Lorenzo Forni sostenete, non esistono; semmai dovrebbe accadere il contrario, ossia la neo-lira si dovrebbe apprezzare e l’inflazione ridursi. Anch’io, a spanna, senza vesti formali impossibili da avere, ho sostenuto che si possa incorrere in un deprezzamento del cambio nell’ordine del 20-30%, se prima non organizziamo una linea di difesa internazionale (spero di non illudermi nel credere che la Banca d’Italia l’abbia già in agenda); essa sarebbe seguita da un’inflazione tra il 10-20%, ma si avrebbe un rilancio forte delle esportazioni, che da noi, come noto, sono sensibili al prezzo.

Allo stesso tempo, però, mi attendo, sulla base dei cicli passati, un’inversione di tendenza entro due anni, ma non nel senso da te indicato, che le conoscenze econometriche non ratificano; si avrebbe un recupero della stabilità potendo esercitare gli strumenti di politica economica che l’Unione Europea, così com’è strutturata, non può, né intende usare.

Se svalutazione e inflazione dovrebbero affermarsi, avrebbe diverse radici rispetto allo stato della nostra economia: inciderebbe infatti la speculazione (quella che richiede d’essere governata con la linea di difesa auspicata) e la sfiducia del mercato internazionale sulle capacità dei nostri governanti. Su questo potremmo anche essere d’accordo, pur ritenendo che esistono rimedi; ma certamente non è quello di diffondere il terrorismo economico sul possibile crollo dell’euro, che può capitarci addosso senza essere noi a deciderlo, come insistentemente scrivono i giornali e i commentatori più qualificati.

Spaventare, invece di rimuovere le cause od organizzare una difesa appropriata, non è una politica sufficiente per contrastare i movimenti anti-euro e anti-europeisti attuali; anche perché essi la pensano come la speculazione, ossia condividono la valutazione di un’incapacità dei nostri governanti a fronteggiare la crisi interna ed europea.

La mia conclusione è che, per allontanare il rischio di un crollo dell’euro, meglio se deciso e governato da noi, non dai mercati o da altri membri dell’eurosistema, occorre esplicitare chiaramente quali sono le richieste di riforme istituzionali che dobbiamo avanzare all’Unione Europea, insieme a un cambio di politica, che non è quella di spendere di più per assistenza, ma per investimenti infrastrutturali. Tuttavia, per avere successo nel negoziato, è necessario che la controparte sia convinta che siamo pronti al passo successivo se non venissimo accontentati. Diffondere terrore economico sulle conseguenze dell’uscita dell’euro, convincendo l’elettorato che non si debba uscire, significa partire perdenti, esattamente come siamo ora.