Il mondo cambia ogni giorno, e il mondo dell’energia cambia ancora più velocemente. E non saranno i decreti luddisti di Trump a riportare indietro il calendario: come il 19° fu il secolo del carbone e il 20° quello del petrolio, il 21° secolo sarà quello delle fonti rinnovabili. Non avremo scelta.

Non è un futuro che potremo impedire.
In un mondo sempre più interconnesso in barba a tutti i muri e i le dogane, l’energia servirà per viaggiare, trasportare e comunicare. Panjiva, istituto di ricerca sul commercio mondiale, rileva un aumento del 3,5 per cento degli scambi mondiali rispetto all’anno scorso, e nessun segno di cedimento.

L’energia servirà per far funzionare automobili e treni, le pompe che porteranno acqua nelle nostre case, i condizionatori e i radiatori per mitigare le estati e gli inverni, i tomografi, le risonanze e gli ecografi per svelare e curare la malattie, le caldaie dei caseifici, i molini degli oleifici e i pastorizzatori delle fabbriche di conserve.

Il mondo corre verso le energie rinnovabili e non tornerà indietro. Chiunque non voglia restare fuori dei margini del mondo deve abbracciare quest’evoluzione. Potrà gestirla e controllarla, ma non potrà rifiutarla.

Il complottista-in-capo Trump dichiara che i mutamenti climatici sono una bufala inventata dai cinesi per minare la competitività dell’industria americana. Ma Xi Jinping, presidente cinese, dice che l’accordo di Parigi “è costato fatica e deve restare”, e la Cina si impegna a ricavare il 20% del proprio fabbisogno di energia da fonti rinnovabili entro il 2030.

Il passaggio dalle fonti fossili a quelle rinnovabili creerà una nuova mappa geopolitica, nuovi centri e nuove periferie.

Diventeranno sempre meno importanti i paesi-pozzo e sempre più importanti altri fattori quali l’accesso alle tecnologie, le linee di distribuzione, le fonti di minerali rari e l’accesso all’acqua, al vento e al sole.

L’acqua cade dalle alture, il vento ideale è costante e lineare, il sole dev’essere abbondante e caldo. I deserti del mondo, dopo aver fornito petrolio per decenni, potrebbero diventare ottime fonti di rinnovabili.

Ma le energie rinnovabili hanno una caratteristica: sono diffuse. Non esistono al mondo giacimenti di vento né di sole. Esistono differenze, ma in generale il buon Dio ha distribuito queste risorse in modo equo su tutto il pianeta.

Debutteranno quindi nuovi attori come il Cile, che detiene la metà delle riserve mondiali di litio, o il Congo che ha oltre la metà del cobalto mondiale, ed entrambi questi elementi sono alla base della produzione di batterie.

Si creeranno nuove classifiche di potere tecnologico: tra i dieci maggiori produttori mondiali di aerogeneratori la Germania detiene il 22 per cento del mercato, seguita dalla Cina con il 17%, Danimarca con il 10% India con il 6% e USA con il 5%. Due colossi industriali, Germania e USA, due potenze emergenti, Cina e India, e un piccolo paese pianeggiante come la Danimarca, con una popolazione tre volte quella della Sardegna su un’area quasi doppia, ma che ha investito pesantemente sull’eolico e che ora soddisfa in questo modo il 42 per cento del suo fabbisogno energetico.

Per una manciata di voti nella “rust belt” americana, incurante del fatto che i posti di lavoro nelle energie rinnovabili sono già 12 volte più di quelli del carbone, Trump condanna gli USA a quattro anni – e forse ben di più – di marginalità politica e di irrilevanza industriale in uno dei settori in maggiore crescita al mondo.

E la Sardegna? La Sardegna che produce il 4% dell’energia elettrica italiana con un 2,5% della popolazione ma consuma pro capite il doppio della Campania e più di tutte le altre regioni del centro-sud Italia, che cosa dovrebbe fare?

La Sardegna ha sole e vento, ma sopporta male, anzi malissimo le installazioni sul proprio territorio. Gli aerogeneratori sono brutti da vedere e rovinano il paesaggio, in special modo quello delicato e spontaneo della Sardegna.
Rendono? Altrove, un aerogeneratore rende alla comunità circa un paio di migliaia di dollari all’anno in tasse, più o meno quanto paga un immobile in città.

Un parco di 40 aerogeneratori rende all’erario locale circa 80 mila dollari l’anno, ma quanto rende a chi li mette in opera e li gestisce? Una turbina che gira a un rendimento medio di 1 MW (metà del picco) per 200 giorni l’anno (pari a 4800 ore) ad un prezzo medio di 7 centesimi al KWh, rende in un anno circa 336 mila dollari.

A fronte di un costo di produzione e installazione dai 50 agli 80 mila dollari, un ottimo affare per chi li costruisce e li gestisce.

E per chi cede l’uso del terreno? In genere beneficia di un “wind lease”, cioè di un contratto di locazione che rende dai 4 agli 8 mila dollari annui per turbina, o 3-4 mila per singolo megawatt di capacità, o il 2-4% del reddito lordo.

Briciole quindi rispetto ai costi ambientali, soprattutto in termini di inquinamento visivo.

Ma gli aerogeneratori a pale rotanti sono l’unico sistema per catturare l’energia del vento? Possibile che si debba ancora fare affidamento su una tecnologia vecchia di 500 anni?

La risposta è no: esistono tecnologie ancora in fase sperimentale ma molto promettenti, come la tecnologia dei vortici e quella della vela “safoniana”. Tecnologie che non nascono Germania o in America, ma rispettivamente in Andalusia e in Tunisia.

Anche nella cattura dei raggi solari la tecnologia non si ferma: una collaborazione tra il MIT statunitense e la Masdar emiratina ha dato vita alle “step cell”, cellule fotovoltaiche in grado di aumentare lo spettro di conversione e i rendimenti dal 20 al 50%.

Anche gli israeliani del Technion lavorano su pannelli solari con rendimenti più che doppi rispetto a quelli attuali, e a costi contenuti.

E infine c’è il solare termodinamico, con la Spagna e l’Italia all’avanguardia, con una tecnologia di conservazione dell’energia ideata da Carlo Rubbia, e un’impresa italiana, l’Archimede di Perugia, che costruisce impianti anche in Cina.
Si tratta in molti casi di sistemi sperimentali, localizzati in aree graziate da condizioni ambientali molto favorevoli, in modo da ridurre gli alti costi iniziali.

La sperimentazione, come è noto, si accompagna alla ricerca, e chi fa ricerca di solito fa anche manifattura.

La Gemasolar spagnola, che opera con un impianto da 400 MW in Andalusia, gode di una partecipazione della Masdar, istituto di ricerca di Abu Dhabi . Il principale gestore di parchi eolici in Canada è la Suncor Energy, ramo della Sunoco, il più grande distributore americano di benzine.
I petrolieri difettano spesso in scrupoli, ma mai in lungimiranza.

E la Sardegna? Continua a dire di no. Che non è però un No alle energie alternative, né alla tecnologia in sé, ma ai modi nei quali la pillola viene somministrata ed amministrata.

Se le pale eoliche, una torre alla volta, riescono sopportabili allo stesso modo in cui la rana sopporta la temperatura dell’acqua che sale di un grado alla volta, un impianto da 400 megawatt che occupa 300 ettari di territorio è più difficile da digerire. E la rana, giustamente dal suo punto di vista, salta via dall’acqua già bollente.

Ma si può continuare a dire sempre no, a tutto, senza se e senza ma? O non sarebbe piuttosto il caso di cominciare ad elaborare dei “No ma”, o meglio ancora dei “Sì se”?

E se si condizionasse la cessione di questi terreni alla creazione in loco di una o più unità di assemblaggio? O ad una cessione di tecnologia ad imprese locali? O ad un partenariato pubblico-privato con una vantaggiosa redistribuzione degli utili? O alla creazione di una scuola di formazione tecnica? O se si proponessero altri terreni a condizioni più vantaggiose?

Tiscali non è nata in mezzo al nulla: poteva contare sul parco cervelli formati dal CRS4 di Carlo Rubbia. Grauso prima, e Soru poi, si sono limitati a raccoglierli e rimetterli all’opera. Non bisogna mai sottostimare l’effetto positivo di “fallout” di un’impresa che s’installa in un territorio.

La più grande fonte di reddito dell’agricoltura sarda, il vituperato Pecorino Romano, è una tecnologia – ed un mercato – che ci provengono in dote dai produttori del Lazio. Certo, la ragione di tutto era ben venale: il minor costo delle terre e del latte in Sardegna. Ma i sardi, sagaci, hanno imparato l’arte e l’hanno messa da parte. Per poi, alla fine, metter da parte anche i vecchi padroni, quegli industriali caseari laziali che oggi producono appena il 5% del Pecorino Romano.

L’economia mondiale funziona così: si può produrre ciò che si riesce a vendere. Si ha un bell’insistere che dovremmo puntare sulla differenziazione delle produzioni, più Fiore Sardo e meno Pecorino Romano, ma mentre il mercato del Romano è un mercato che già esiste, perché qualcun altro vi ha investito sudore e denari nel secolo scorso, quello del Fiore Sardo è tutto da costruire. E ci vorranno almeno altrettanto sudore e altrettanti denari per portarlo allo stesso livello di quell’altro.

Stesso discorso vale per il mercato dell’energia. Se la Sardegna ha buone risorse, ha terra, ha vento e sole, e può venderne l’utilizzo traendone vantaggi, si ha un bell’insistere che bisogna puntare su altro.
Si ha un bell’insistere che dobbiamo “puntare sulle nostre risorse”, perché non sempre la percezione delle “nostre risorse” è accurata, e non sempre corrisponde a ciò che ne pensano gli altri.

Esempio per tutti il dolciume sardo, che per noi è un concentrato di valori simbolici, ma è un prodotto difficilissimo da smerciare altrove: carico di zuccheri raffinati e spezie non dovunque gradite, molto localistico, di dubbio valore nutrizionale.
Il mercato mondiale, ahinoi, non funziona così: non siamo noi a decidere che cosa deve piacere agli altri.

Tra tutto ciò che abbiamo da offrire, può capitare che gli altri desiderino proprio quello che non vorremmo vendere. Ma se sono più interessati ad una forma di pecorino che ad un vassoio di pardulas, forse una ragione ci sarà.

Se il turista preferisce le spiagge ai nuraghi, bisognerà cercare di offrire prima di tutto quelle, e poi, con l’altra mano, cercare di rifilargli anche i nuraghi. Si chiama “bait and switch” ed è un’onorevolissima tecnica di marketing.
Scottati dai disastri ambientali dell’industria petrolchimica, metallurgica e mineraria, abbiamo ormai sviluppato un terrore paralizzante anche per l’acqua tiepida.

È giusto brigare per decidere, avere voce in capitolo, sedersi a discutere e negoziare, non alzarsi dal tavolo senza aver strappato succosi vantaggi per la terra, per il suo ambiente naturale, sociale ed economico. È giusto proteggere e difendere, ed è giusto sapere che cosa fare e dove, come e a che condizioni farlo.

Ma non è giusto sbattere i pugni sul tavolo prima ancora di essersi seduti. Invece che un popolo capace di scelte oculate per la propria terra, finiremo per diventare una terra di bastian contrari – e tali apparire agli occhi degli investitori mondiali, dei quali abbiamo bisogno, casomai qualcuno si fosse messo in testa di poter stare solo sul mercato dei venditori e mai su quello dei compratori – e finiremo per isolarci sempre più al riparo di una percezione distorta della realtà, dei nostri valori e di quelli altrui.