Leggendo quali siano le intenzioni del Governo italiano e dell’Unione Europea, nonché i commenti dei giornalisti economici, viene il sospetto che si sia persa cognizione di quali siano le regole che governano la nostra economia produttiva e l’occupazione.

Nel dopoguerra le due visioni alternative, quella keynesiana e quella monetarista, avevano spinto i paesi occidentali, Italia compresa, a scegliere le proprie politiche in funzione delle proposte di queste due scuole di pensiero, la cui differenza fondamentale consisteva nella diversa concezione del ruolo della domanda aggregata (consumi, investimenti ed esportazioni) e delle basi su cui si fonda l’occupazione della forza lavoro.

La prima riteneva che la spesa pubblica, preferibilmente per investimenti, dovesse avere un ruolo trainante (politica della domanda) e la seconda, invece, che lo dovesse avere un mercato sempre più libero, perché la domanda sarebbe spontaneamente seguita (politica dell’offerta). Per il lavoro, i monetaristi ritenevano che la piena occupazione fosse quella sempre garantita dalle condizioni vigenti del mercato, mentre i keynesiani avevano una concezione “fisica” della stessa e la politica si dovesse dare carico di garantirla se i privati non provvedevano (il limite fu individuato tra il 5-6% della forza lavoro).

Sui temi economici, sinistra e destra si distinsero sulla base di questa diversa interpretazione; gli insuccessi incontrati dall’una o dall’altra concezione hanno fatto perdere l’orientamento indistintamente a tutte le forze politiche ed esse si sono messe a inseguire l’insoddisfazione crescente degli elettori offrendo assistenza e non opportunità di impiego.

Le proposte che vengono avanzate rispecchiano questa confusione e ripropongono soluzioni da economie e società chiuse nella speranza di ritornare sul sentiero dello sviluppo.
L’Italia è conscia che il suo sviluppo è trainato dalle esportazioni e si prefigge di mantenere la natura di economia aperta, ma trascura le relazioni che legano gli investimenti alla domanda aggregata e ai tassi dell’interesse e le esportazioni alla domanda estera e al cambio estero della moneta.

Da queste stesse colonne è stato insistentemente indicato che senza investimenti infrastrutturali e rilancio delle costruzioni la ripresa non potrebbe arrivare. Quel poco di crescita del PIL che si esalta e alimenta le speranze di ripresa è un sussulto statistico dovuto al fatto che la base di calcolo è di circa un decimo inferiore al livello di inizio della Grande recessione del 2008.

Gli analisti e la politica economica italiana si rifiutano di riconoscere che i motori del nostro sviluppo sono due: le esportazioni e le costruzioni. Il secondo motore viene tenuto quasi spento per motivi ideologici interni e per sordità europea. Si spende invece di più o si progetta di spendere a livello pubblico per migliorare la competitività delle nostre esportazioni, senza tenere conto che, così facendo, si sottraggono risorse pubbliche per gli investimenti e si trascura che la domanda estera, unitamente al cambio dell’euro, sono fuori dal nostro controllo.

Inoltre il prezzo delle esportazioni non è tra le determinanti principali delle nostre esportazioni, le quali ammontano a non più di un quinto del PIL e non possono certo fungere da principale motore del nostro sviluppo. Che l’aggiustamento dei conti pubblici avvenga a spese degli investimenti è un dato di fatto, che assume varie forme: parrebbe che 35 dei 46 mld di spese per investimenti attuabili al Sud sulla base dei contributi UE previsti per il 2018-2020, sarebbero disponibili solo dopo la scadenza del triennio.

Sotto la spinta degli industriali e dei sindacati dei lavoratori si intende ora ridurre il cuneo fiscale senza previa correzione dei benefici riconosciuti. Se un siffatto provvedimento viene attuato a parità di livello salariale si aumenterebbe la domanda aggregata, ma attraverso un canale meno efficace di quello degli investimenti pubblici.

Se, invece, si ritiene che i salari debbano ridursi, senza che i prezzi dei prodotti finiti flettano, si avrebbero sempre gli stessi effetti negativi sulla composizione della spesa pubblica, ma non si avrebbero né effetti positivi sulle esportazioni, né sugli investimenti e si incrementerebbero solo i profitti.

Senza una più intensa ripresa della domanda aggregata interna gli sgravi fiscali non raggiungerebbero lo scopo di aumentare gli investimenti, ma gli accordi europei non lo consentono, anche se l’Italia presenta attualmente un attivo di bilancia estera corrente che imporrebbe una maggiore spesa. Se si decidesse di ridurre comunque il cuneo fiscale senza rivedere i benefici, esso troverebbe giustificazione nella consueta ricerca di un consenso elettorale, che avrebbe peraltro scarse probabilità di successo allo stato attuale delle aspettative della pubblica opinione.

Si riparta quindi dal recupero di una corretta concezione del funzionamento del modello di sviluppo italiano e delle relazioni tra macrovariabili e relativa spiegazione all’elettorato di ciò che comporta. Non è certo compito facile, ma neanche impossibile.