Voterò Sì al referendum del 28 maggio, in merito “all’abrogazione di disposizioni sul lavoro accessorio”.

Perché il mio caso, uno tra tanti, rappresenta la stortura più eclatante nell’uso di questo strumento, che nasce con la finalità giusta di far emergere il lavoro nero e mettere in regola la signora delle pulizie o la baby sitter che ogni tanto svolgono un’attività lavorativa.

Invece l’uso e l’abuso, che soprattutto negli ultimi anni si è fatto del lavoro di tipo accessorio, rivela le condizioni di grandi criticità nelle quali si trova a combattere la mia generazione.

Quelli dei nati nei primi anni degli anni Ottanta che hanno studiato, che hanno frequentato l’Università, che si sono formati all’estero magari con esperienze di studio e di lavoro ma che poi si trovano a galleggiare nella melma delle tutele negate, del lavoro a singhiozzo, della mancanza perenne di una progettualità a lungo termine. Perché odio i voucher?

Perché sono stata per tre anni una lavoratrice a voucher. Laureata, specializzata, regolarmente abilitata. Perché le aziende potevano assumere, trattandosi di aziende sane, dinamiche, senza debiti ma al contratto preferivano il lavoro di tipo accessorio.

Perché odio i voucher?
Perché conveniva tremendamente al mio datore di lavoro, che con i voucher non era tenuto a garantirmi la malattia, a tutelare la maternità, a concedermi le ferie. Quando sono stata colpita da una forma violenta di mononucleosi e non potevo lavorare, i voucher sono stati ancora più odiosi. Mi sentivo impotente, colpevole. Sei malata? A me datore di lavoro che uso i voucher, non frega niente di te. Neanche le altre forme flessibili del lavoro garantiscono queste tutele! Verissimo. Ma con i voucher il datore di lavoro non assume più nessuno.

Nessuna stabilizzazione, nessun progetto, nessun contratto, nessun rapporto umano e professionale che si può e deve innescare.

Il voucher è una prestazione che tu dai, al minore costo possibile, al tuo datore di lavoro. Ti svendi, questa è la verità e non ricevi la busta paga. Non vedrai mai scritto bianco su nero, ciò che lo Stato ti deve e ciò che tu devi allo Stato. Con i voucher non esiste il tuo lavoro, perché lo dice la legge stessa: il voucher non è un rapporto di lavoro. Infatti è una prestazione, un servizio. La prostituzione e lo spreco delle capacità e del talento nel mercato del lavoro.

Con i voucher, per pagarti ti danno dei buoni che riscuoti al tabacchino, tra la gente disperata che si ubriaca di gioco d’azzardo.
Tante volte entravo nel tabacchino con un misto di vergogna, con lo squallore scaturito dalla consapevolezza dei miei diritti messi in saldo, sotterrati.

Avrei potuto e voluto lavorare a tempo pieno, con un contratto e far crescere l’azienda. Se hai un obiettivo a lungo termine conviene a tutti: sei motivato tu, lavoratore e farai di tutto per far grande l’azienda che a te ci tiene, ti protegge, ti stimola e ti forma. Con i voucher no, non è possibile.

Il datore di lavoro ti chiama quando vuole lui, ne chiama altri mille come te, lavori una volta al mese o due (per più mesi, oppure tutti i giorni per un solo mese dell’anno). Non puoi guadagnare più di 2.000/3.000 euro in un anno con i voucher, ci credete? Così dice la legge. Per questo il datore di lavoro ti fa lavorare molto poco. Decide lui e tu subisci.

Fino a quando si apre uno spiraglio in questa schiavitù odiosa del precariato. L’alternativa sicuramente migliore rispetto al lavoro accessorio e oggi quasi un miraggio: il contratto. Quando si è aperta questa strada, io l’ho scelta subito. Non dimentico però che i diritti vanno difesi sempre, non solo i miei ma i diritti di tutti quelli della mia generazione.

Anche se oggi ho un contratto, fino a quando altri uomini e altre donne come me, saranno svenduti con i voucher, io non mi sentirò bene. Sentirò sempre quell’umiliazione che mi assale ogni volta che passo davanti a un tabacchino. Per questo il 28 maggio voterò Sì.