Ha 62 anni. Vive a Sant’Antioco. Si sposta solo se e quando chi la vuol ascoltare la va a prelevare per riconsegnala subito dopo al suo regno. È minuta. Non indossa abiti pregiati, neppure ori.

È regina priva di vesti regali. È sacerdotessa ma non indossa paramenti sacri. Non ha bisogno di cingere il suo corpo con le une né con gli altri, avendoli intessuti nell’anima.

Questa donna (sacre le donne di Sardegna, vestali di riti magici), Chiara Vigo, su Maist’e Pannu, la ‘donna delle acque’, è lei stessa un tesoro inestimabile. Patrimonio inalienabile immateriale dell’umanità, a prescindere dall’Unesco.

È l’unica depositaria al mondo di un’arte antica come il mondo, che non è nelle disponibilità economiche di nessuno. Impregnata di magia. Intrisa di mistero. Tramandata di generazione in generazione. Unica nel suo genere.

L’arte del filo dorato, della seta del mare. La cui materia prima, il bisso, è offerta gratuitamente dal mare (si ottiene da un mollusco marino: Pinna Nobilis, noto col nome volgare di nacchere). È cardato con pazienza certosina, filato con maestria unica, intessuto con le unghie.

Un filo di origine animale trasformato in oro, che unisce i due poli del tempo: l’oggi al ieri, a ripercorrere le antiche orme della donna, Berenice di Cilicia, che nel I sec. dC. ne fece dono alla meravigliosa isola di Sant’Antioco, alla Sardegna tutta e al mondo.

La voce pacata e leggera, ma ferma ed orgogliosa, di Chiara Vigo (donna di Sardegna che dice di sé di avere intessuto nell’anima un arazzo dorato che non può più essere disfatto) ci introduce in una dimensione mitologica.

Quello che si compie, ascoltando le sue parole, è un viaggio a ritroso. Dal presente ci troviamo introdotti nella struggente operosità dell’attesa dell’amore di Berenice di Cilicia per l’imperatore Tito.

Racconta, su Maist’e Pannu, che la sua arte non si esaurisce nella tessitura dell’ordito, ma implica lunghe e molteplici immersioni in apnea per l’approvvigionamento della preziosa materia prima: 18 metri di filo ritorto richiedono circa cento immersioni.

Tutto è eseguito a mano e tutto si tinge di magico: la cardatura, filamento per filamento, con l’ausilio di un semplice strumento; la filatura effettuata con un piccolo fuso manovrato con maestria d’altri tempi; l’aspersione del filo ritorto in una miscela alchemica ricavata da erbe, la cui composizione è parte del mistero che si tramanda da Vestale a Vestale del bisso; il canto sacrale che trasmuta in oro filante quel che in origine è materia organica.

Questa è un’arte unica al mondo, che ha prodotto manufatti sacri e preziosi, offerti in dono a monarchi, Papi (Benedetto XVI, per esempio), personaggi importanti (la cravatta per Clinton), enti ed istituzioni (il Comune di Sassari si fregia di una sua creazione), esposti nei più importanti musei del mondo (Louvre, British Museum…).

Anni addietro i giapponesi le offrirono due miliardi e mezzo di lire perché vendesse loro “Il Leone delle Donne”, un arazzo ricamato con un bisso pescato da sua nonna nel 1938. Non si parla di creazioni ripetibili, ma uniche, dal valore artistico ed antropologico inestimabile.

Il bisso, in antichità, era un filato regale, che vestiva re citati nella Bibbia, cantato da poeti. Materiale prezioso dal colore dell’oro. Non si vende né si compra, perché è un bene collettivo, delle genti sarde. Un giuramento, “il giuramento all’acqua”, ne impedisce la commercializzazione. Lo si può solo donare e ricevere in dono. D’altra parte, il sacro non ha prezzo.
“Prendete La mia anima e
Buttatela nel fondale
Che sia la Mia Vita
Per Essere, Pregare e Tessere
Per Ogni Gente
Che da me và e da me viene
Senza Tempo, Senza nome, Senza Colore, Senza Confini,
Senza denaro.
In nome del Leone dell’Anima Mia e
Dello Spirito Eterno.
Così Sarà.»

Parole sussurrate in sardo (ho avuto l’onore di sentirle declamare dalla viva voce di Chiara… Commovente). Una cantilena che ammalia e cattura, che trasmette la percezione di assistere ad un antico rito magico, iniziatico, sortito fuori dal mare, mormorato dal vento.

È recitato in occasione della consacrazione della prescelta per il passaggio del testimone: colei che assumerà su di sé il sacro compito di perpetuare il rito dell’antica arte del bisso: la filatura della “seta marina”.

Non si è più presenti alla nostra era, si è immersi nelle acque di un tempo antico e mitico.
La freccia del tempo impazzisce. Il XXI secolo scolora. La magia popola gli spazi circostanti. Il mistero avvince. Il tempo scorre al ritmo dettato dalla Natura. Questa offre, con virginea generosità, i suoi tesori, ricevendo, in contraccambio, il ringraziamento, la venerazione e il rispetto dell’uomo. Tempi passati, tempi sacri.

Tutto questo, fino al 2015, era disponibile agli occhi del curioso visitatore che avesse voluto penetrare quest’area sacra di operosità esoterica. A Sant’Antioco era visitabile il “museo del bisso”. Ingresso gratuito. Offerta libera. Chiara non commercia con la sua arte sacra.

In quel luogo, gelosamente curato ed accudito dalla ‘vestale del bisso’, era consentito entrare in contatto con l’ancestrale, con le armonie del cosmo, col sospiro del sacro. Oggi, la giunta comunale, con una motivazione banale quanto sospetta, ha spento le luci, rimosso gli arredi, sbarrato le porte. Ha spento così la luce dell’anima, chiuso gli occhi allo spirito, negato all’udito i suono ancestrale del mito.

Ci ha riprecipitato nella nostra contingenza, pregna di urgenze, gravida di preoccupazioni, sottraendoci il sogno di un’era fantastica, restituitaci e resa reale da una piccola grande donna di Sardegna.
I nostri (s)governanti regionali non ‘hanno potuto’ reperire fra le misere pieghe dei bilanci pubblici (cioè alimentati dai soldi dei sardi) i necessari finanziamenti (peraltro mai richiesti dalla ‘donna delle acque’… Ma era necessario richiederli?) per ammodernare gli impianti elettrici (tutte qui le ragioni della chiusura… Impianti elettrici non a norma).

Eppure, il governo regionale, lo stesso delle vergognose mance, quelle che pesano fior di milioni sul bilancio pubblico (alimentato sempre dai soldi dei sardi), non ha lesinato mance a destra e a sinistra pur di finanziare quel sottobosco occulto che foraggia di voti di ritorno la politica della cecità, dell’insensatezza,dell’inconsistenza e dell’anonimia.
La perdita del “museo del bisso” e il rischio di perdere con esso anche la memoria dell’arte della filatura recano un danno incalcolabile alla cultura e allo spirito. Mi ostino a credere che i soldi spesi in cultura, soprattutto se pubblici, rappresentino un investimento che assicura ritorni economici stabili e duraturi, quelli educativi sono talmente elevati da essere incalcolabili.

Mi stupisce, perché nonostante tutto sono ingenuamente fiducioso, che una giunta regionale capitanata da un uomo proveniente dal mondo accademico non avverta l’urgenza di impiegare i fondi pubblici (ribadisco, dei sardi, di tutti noi) per preservare ricchezze e tesori che da soli fanno grande la Sardegna e preferisca dissolverli in mille rivoli, anche i più insignificanti.

Poi, dopo lo stupore, la ragione mi suggerisce che forse la politica politicante ha sopravanzato in quell’uomo e nei componenti dell’esecutivo regionale lo spirito e il coraggio di essere liberi, tacitando il doveroso amore che le loro anime dovrebbero avvertire nei confronti di una terra che non ha eguali al mondo.
Possiamo noi sardi permettere che la nostra terra e il mondo della cultura siano privati di questo tesoro?

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