Questa è una storia vera successa a me tanti anni fa.

Un giorno, molto tempo fa, quando ero ancora bambino e vivevo nel mio paese del Meilogu, vedevo passare nelle vie paese greggi di pecore in transumanza, oppure gente a cavallo o a piedi che si recava o rientrava dai campi; oppure donne con le ceste di pane sul campo rincasare dal forno lasciando lungo la strada un gradevole profumo di vita.

Vicino a casa mia, viveva un vecchio signore. Uno di quegli uomini grandi e buffi, con i pantaloni di fustagno e la camicia sempre bianca e le mani ruvide come la terra. Un uomo saggio che amava la poesia e che riusciva a comporre la sua metrica senza nemmeno sapere come sarebbe stata. Uno di quei vecchi signori che sapeva quando parlare o quando tacere. Uno di quegli uomini a cui oggi la società contemporanea manca e che aveva l’autorità di parlare con la sua presenza fisica.

Quest’uomo, Tziu Foreddu, come alcuni uomini del suo tempo, aveva un somaro come mezzo di trasporto. Tutti i giorni al mattino presto montava sul suo somaro e andava nel suo podere, e alla sera, non troppo tardi, ritornava in paese lasciando la bestia sul retro di casa sua legata ad un palo della luce spento.

Una sera d’estate, mentre mi trovavo a giocare con i miei compagni in strada, decidemmo di fare uno scherzo all’insaputa di tutti. L’idea era quella di prendere il somaro e di fare un giro nell’isolato senza che nessuno (o meglio il proprietario) lo venisse a sapere.

Ci avvicinammo nel cortile della sua abitazione, sul retro della casa per cercare di capire come slegare quell’asino. Chi con la bici, chi di corsa, chi fue fue, per cercare e provare quell’adrenalina di cui avevamo bisogno. Uno di quei giochi gagliardi che si fanno per sentirsi già grandi, insomma.

Avvicinarsi al palo dove stava l’animale non era difficile. Cosi come slegare il somaro per poi montarci sopra, non ci sembrava poi cosi complicato. Dopo una conta tra amichetti, ecco che mi tocca andare a slegare l’asino.

Arrivo lì davanti e con un gesto repentino, in un baleno, libero l’animale nel silenzio complice dei miei amici. Poi cerco di farlo muovere ma senza esito tirando la fune avanti o di lato ma senza un gran risultato per me.

< Dai dai, move > (dai, dai, muoviti) gli dicevo all’animale, ma nudda (nulla).

Improvvisamente dalla finestra della casa si affaccio, Tziu Foreddu. Una una risata e subito dopo:

<No annada, no?> (non cammina?) riferito all’animale.

Mi accorsi che eravamo stati beccati: qualcuno scappò, io rimasi con l’asino immobile come un salame senza sapere da che parte stare. < A tie so nenne. No annada? > (dico a te. Non cammina?).
Io non volevo parlare poi, con la voce rotta dalla vergogna rispondo: <no, no annada!> (no, non cammina!).

Lui sapeva quello che volevamo fare e senza giudizio o condanna mi disse: < S’ainu no ischidi chi este isoltu. Itte pensades, chi olede? Itte Ischis si ses creadura. Risponnemi però, s’aiunu a bolada? > (L’asino non sa di essere slegato. Cosa pensi, che voli? Cosa sai se sei una creatura. Rispondimi però, l’asino vola?)

Scappai a casa immerso nel buio pesto della notte e inizia a chiederemi come mai quell’asino rimaneva impalato anche dopo averlo slegato. Non ne capivo la ragione e domandai a chi ne sapeva qualcosa.

Mi spiegarono che l’asino era stato domato per rispondere al suo padrone e che nella sua mandronia (pigrizia) non si sarebbe mai mosso se non soltanto in determinati orari perché oramai solo in poche ore della giornata si “sentiva libero”.

La cosa mi pareva assurda e io continuavo a non capire. E più non capivo e più mi domandavo. Più cercavo risposte e più sentivo l’esigenza (inconscia) di liberarlo oppure di volerlo domare alla Libertà.
Allora decisi di recarmi, ogni sera, ad un orario diverso dal solito, nel cortile di Tziu Foreddu per slegare il suo somaro.

Era grande e grosso con il pelo lucido e le orecchie pelose. Non mi piaceva l’idea di vedere un animale legato ad un palo della luce spento e volevo rischiare, a costo di prendermi qualche calcio nel di dietro.

Dopo qualche giorno dal mio sperimento, bussò alla casa dei miei genitori Tziu Foreddu e con aria non troppo severa chiese a mia madre dove fossi. Non diedi nemmeno il tempo di rispondere che d’improvviso sbuccai con aria impaurita e lui mi disse: < Inue Este s’ainu meu? > (dov’è il mio asino?).

Senza pensarci troppo risposi: < est bolau!> (è volato!). E sorrisi.

< Tue no ischisi su chi asa combinau…> ( tu non sai cosa hai combinato), mi disse.

E forse davvero non lo sapevo. Ma io lo volevo soltanto liberare quell’animale. Alla sua natura. Al suo essere. Non mi importava se aveva mangiato le piante dalla vicina di casa. Oppure se girovagava in paese.

Un asino è tale se lo tratti da asino. E un asino è l’animale per eccellenza più pulito e più rispettoso di ogni altro animale. Fa il suo lavoro con fatica e umiltà. Non disubbidisce ma sopporta. Se lo domi alla corsa e lo fai correre, si sentirà un cavallo; se lo carichi, porta il suo peso con dignita e resistenza e alla fine riceve la stessa misura di cereali, oppure il suo fieno come premio.

Poi gli fanno scoprire la sua natura e si comporta come tale.

Ecco perché ci dicono che siamo somari quando non capiamo le cose. Non perché non le vogliamo capire, ma perché alcune discipline rientrano in dei codici estranei alla nostra natura. Perché dobbiamo essere ubbidiente, poco creativi, rispettosi dei nostri padroni così da non sentirci mai totalmente liberi nemmeno quando qualcuno ci slega (lega l’asino dove dice il padrone…). Poco spirituali ma bigotti.

Questa storia mi è tornata più volte in mente durante la mia vita e l’ho sempre sottovalutata. Mi è venuta in mente con tutti i suoi personaggi, con tutti i profumi e gli odori del tempo. Soprattutto mi è venuto in mente la domanda: < ma s’aiunu a bolada?> ( ma l’asino vola?) che mi faceva dire: no, non vola. Ma se lo aiuti a capire vive meglio. Può sembrare strano ma è cosi.

Poi, un giorno, davvero mi sono sentito come quell’asino e allora ho pensato a come ci costruiamo catene immaginarie che ci privano di muoverci, che non ci fanno sentire per quello che siamo.

Che ci tengono in scacco. Che ci fanno fare sempre le stesse cose. Che ci imbruttiscono, ci logorano e ci fanno accontentare e vivere, da somaro, appunto.
Riguardo a Tziu Foreddu, sapeva bene quello che stavo combinando e me ne sono reso conto solo da adulto. Mai un giudizio, mai una condanna ma solo tanta comprensione. Così, mentre io stavo liberando il suo somaro, lui stava educando me alla libertà.