L’11 febbraio scorso si è svolta a Sassari una importante giornata di studio, dibattito e confronto pubblico incentrata sui diritti dei sardi e sulla necessità di costruire nuovi percorsi di emancipazione sociale e nazionale per la Sardegna.

Si è aperta una nuova fase di un percorso lungo ed articolato. Una tappa che apre uno spazio di condivisione politica nuovo.

Uno spazio caratterizzato dalla necessità di affrontare temi importanti quale quello della riscrittura dello Statuto, tenendo lo sguardo sempre puntato sui problemi reali di questa terra, sui diritti collettivi dei sardi, sulla necessità di dare delle risposte politiche concrete, specialmente in un momento di grande difficoltà economica come quello attuale: viviamo in un’isola di poco più di un milione e mezzo di abitanti e abbiamo oltre 260 mila disoccupati; il 2016 ha registrato un aumento di quasi il 50% di fallimenti rispetto all’anno precedente (sono fallite ben 243 aziende), ogni anno l’isola perde oltre 5000 persone, soprattutto giovani che emigrano in cerca di lavoro e condizioni di vita dignitose che questa terra non riesce più ad offrire. Si va via via sfaldando la solidarietà sociale, ci mettono gli uni contro gli altri, emerge con sempre più evidenza una forma di razzismo che spazia dalle piazze virtuali a quelle reali.

Ci vogliono far credere che il problema dei sardi non sia l’immobilismo politico della Giunta Pigliaru, non siano le politiche della subalternità, le logiche coloniali della dipendenza e della spartizione del potere amministrativo ed economico ma i migranti che fuggono dalla guerra, dalla fame e dalla disperazione. Si mettono in discussione i valori della solidarietà e dell’accoglienza con il rischio di disgregare la tenuta sociale delle nostre 377 comunità.

Occorre dunque fare presto. Occorre dare delle risposte politiche ai problemi che affliggono l’Isola. Occorre costruire una alternativa politica, economica e sociale allo sfacelo verso cui lo Stato Italiano ci sta inesorabilmente mandando incontro.

La scelta di organizzare un dibattito che focalizzasse l’attenzione sui diritti dei sardi nel secolo attuale imponeva che si discutesse in maniera pragmatica delle modalità attraverso le quali renderli reali, tangibili e attuabili.

Parlare di modifica dello Statuto ha aperto una riflessione circa la possibilità di avviare un processo di trasformazione della società sarda nella prospettiva della scrittura di una nostra Carta fondamentale dei diritti, di una nostra futura Carta Costituzionale.

Il tutto scaturito dalla necessità di agire su uno Statuto non più attuale, inadeguato a rappresentare la realtà moderna dell’Isola. Uno Statuto rimasto in gran parte inapplicato sia perché lo Stato italiano ci impedisce sostanzialmente di esercitare una qualsiasi forma di autonomia, sia perché le classi dirigenti che si sono alternate al potere nell’Isola, hanno sempre anteposto gli interessi particolari e quelli dello Stato centrale a quelli della Sardegna, ridotta oramai ad una circoscrizione periferica, marginale e ininfluente.

Questo è il dato politico emerso nel corso del lungo dibattito della giornata di sabato 11 febbraio.

Il ritenere non più procrastinabile la riscrittura di uno Statuto vecchio di settant’anni implica l’inizio di un percorso politico indirizzato all’ottenimento di nuovi poteri e maggiori spazi di sovranità. La riscrittura dello Statuto in tal senso deve passare per il riconoscimento di due principi imprescindibili: il riconoscimento giuridico della Nazione sarda e l’affermazione del suo diritto effettivo all’esercizio dell’autodeterminazione.
Si è inteso dunque avviare un processo politico che chiama in causa la società sarda e tutte quelle forze politiche e civiche che pongono al centro delle loro battaglie la Sardegna e gli interessi dei sardi.

L’immobilismo e l’inadeguatezza politica della giunta regionale, rendono il Governatore Pigliaru un interlocutore improbabile, non adeguato ad intraprendere un simile percorso di emancipazione e di trasformazione sociale.

Impossibile non ricordare la posizione delle più alte cariche della Regione – da Pigliaru a Ganau, passando per l’appoggio incondizionato e quasi del tutto unanime dei sindaci a trazione PD – completamente appiattita sulla linea del Governo Renzi in riferimento al recente referendum costituzionale. Una posizione a sostegno di una riforma che per la Sardegna rappresentava il preludio per il totale abbattimento dell’autonomia.

Se avesse vinto il Sì, non ci troveremmo oggi a discutere la possibilità di accrescimento di poteri attraverso la riscrittura dello Statuto autonomo, quanto piuttosto a riflettere sulle strategie più idonee ad impedirne la sua cancellazione.
Nel voto del Referendum Costituzionale c’è un giudizio severo nei confronti del governatore Pigliaru e della sua politica.

La percentuale dei No, decisamente più alta di quella espressa a livello italiano, contiene inoltre il segno della difesa dell’autonomia. Sull’onda di quel risultato, ottenuto anche per via di una forte mobilitazione indipendentista, è possibile oggi imbastire una battaglia per l’accrescimento di poteri reali. Nessuna ratifica della Costituzione Italiana dunque, ma una piena consapevolezza che per far prevalere i diritti dei sardi occorre partecipare alle decisioni che ne determinano il futuro.

Su questo tema l’indipendentismo non è venuto fuori con una voce univoca, ma l’11 febbraio scorso è emersa in maniera distinta la volontà di dare seguito ad una nuova fase di confronto politico, incentrato sul confronto democratico e indirizzato alla costruzione di un percorso di lotte comuni e condivise.

Non è certo la prima volta che si richiama all’unità dei sardi e che si fanno dei tentativi di ricomposizione strategica dell’indipendentismo. Ci sono stati vari tentativi in passato, su iniziativa dei dirigenti politici così come della base. Tentativi non andati a buon fine e che non si sono fra loro incontrati; il processo iniziato negli ultimi mesi, però, ha la possibilità di raccogliere tutte le precedenti esperienze, ha la possibilità di rendere tutti protagonisti di questo percorso di ricomposizione del movimento nazionale, riattivando chi ha perso fiducia nella politica e nella possibilità di imprimere un cambiamento nella società sarda.

Non sono in grado di affermare che quello iniziato ad ottobre dell’anno scorso in occasione della conferenza stampa svoltasi al THotel di Cagliari – proseguito con la mobilitazione contro l’inceneritore di Tossilo, la mobilitazione contro la stortura della Asl Unica a dicembre fino ad arrivare a Sassari con il dibattito sullo Statuto e i diritti dei sardi – sia un processo irreversibile, ma sono certo che l’irreversibilità di questo processo dipenda dal grado di responsabilità generazionale che saremo capaci di dimostrare e dalla volontà politica di non sottrarci ad un confronto pubblico, partecipato ed inclusivo.

Nelle ultime settimane si sono susseguite una serie di iniziative e di incontri che hanno visto al centro del dibattito la lingua sarda, la municipalità, la battaglia per la smilitarizzazione dell’Isola e ancora la prospettiva della costruzione di una alternativa politica ai partiti italiani.

Il fatto che il dibattito nasca e cresca lontano dalle scadenze elettorali mette al riparo dai personalismi e dal pericolo di dare vita ad alleanze strumentali costruite unicamente sul calcolo delle potenziali percentuali di voto.

Le elezioni sono, in ogni caso, una eventualità con la quale occorrerà fare i conti se si vuole dare vita ad una alternativa di governo con testa e gambe in Sardegna. È necessario perciò che tutte le componenti del movimento che si va a formare attorno al principio dell’autodeterminazione siano disposte a misurarsi sui contenuti, sui valori condivisi e sulla scelta dei metodi più idonei ad individuare i rappresentanti del movimento stesso, coinvolgendo e rendendo protagonisti della scelta i sardi con l’indizione di primarie.

Gli indipendentisti, già alla vigilia delle precedenti elezioni, avevano tracciato un percorso di inclusione e di partecipazione attraverso assemblee e conferenze aperte che hanno permesso ai movimenti civici, ai movimenti culturali e ai singoli di concorrere fattivamente alla formazione di liste e programmi elettorali.

Esperienze perfettibili e avvincenti, pur se penalizzate da una legge elettorale liberticida ed antidemocratica che andrebbe subito cambiata per permettere la rappresentatività di tutto il tessuto sociale sardo. Non possiamo tralasciare che la coalizione Sardegna Possibile e Fronte Indipendentista Unidu con le rispettive preferenze raccolte (quasi 80 mila la prima e quasi 8 mila la seconda) hanno conquistato la fiducia e acceso le aspettative di cambiamento di una fetta tutt’altro che esigua di sardi.

Quello intrapreso è indubbiamente l’inizio di un nuovo processo politico, con la consapevolezza che niente è realizzabile dall’oggi al domani, tantomeno l’indipendenza, ma se non si creano adesso i presupposti politici e giuridici per l’effettivo esercizio dell’autogoverno e del diritto all’autodeterminazione, tutto diventa velleitario e funzionale solamente ad uno scopo politico scandito da slogan e parole prive di significato ideale ed incapaci di trasformazioni reali.