(Pro lèghere s’artìculu in sardu pùnghere subra sa bandera in artu)

Euroallumina!
Leggevo un commento: “Se non ci fosse il problema del lavoro”. Mi è venuto spontaneo pensare che invece c’è! Ed essendo questo dramma incombente, anzi conclamato, il problema deve essere affrontato con grano salis. La chiusura di una qualsiasi attività, se non compensata da altre iniziative che garantiscano l’assorbimento dei lavoratori e purché queste non rappresentino un palliativo temporaneo per tacitare animi esacerbati, è sempre, qui in Sardegna, un autentico dramma, e di questa tragedia non si può non tener conto. Io sto con gli operai!

Sto con gli operai significa semplicemente che per quelle persone e per le loro famiglie parteggio. In questo senso sono partigiano. Il lavoro è sacro.

Una volta dichiaratomi partigiano e guardatomi attorno, mi viene anche da pensare se il diritto sacrosanto di questi uomini possa essere considerato prioritario rispetto all’altrettanto sacrosanto diritto alla salute del territorio che ospita quelle attività e a quella degli altri abitanti presenti e futuri.

Nel bordeggiare fra queste due sacralità non è certo semplice propendere per l’una o l’altra soluzione: lavoro o salute (delle persone e del territorio)? La politica – non molto quella sindacale che è sicuramente e, aggiungo io, insensatamente schierata a prescindere – è sempre stata preda di questo dilemma: preservare il territorio o dar momentanea soddisfazione alle disperate paure dei lavoratori?
Come uscire da questa impasse?

Forse provando ad immaginare quale dei due possa essere il diritto più sacro, quello che sopravanzi la sacralità dell’altro, o quale dei due sia più durevole e guardi al futuro con un respiro da maratoneta e non con quello da centometrista. Se si tiene presente la storia dell’industria in Italia e, soprattutto in Sardegna, si ottiene con immediatezza un elemento di riflessione.

L’industria e i suoi sistemi di produzione sono transeunti. Un tempo si modificavano e bruciavano nell’arco di mezzo secolo, oggi, con l’avanzare della tecnologia, variano (se non addirittura muoiono) nell’arco di pochi anni, forse un decennio, ma neppure. Le speranze di vita di una tecnologia o di un processo produttivo sono sempre più destinate a ridursi, per cui ciò che vediamo oggi sarà completamente diverso un prossimo domani; qui in Sardegna quel che è disponibile oggi è già morto e sepolto in altre zone d’Europa (un tempo l’attitudine a scaricare attrezzature obsolete e processi produttivi desueti verso le estreme periferie dell’Impero era tipico del colonialismo, ma oggi mica si può parlare di quella vetusta ed anacronistica era geologica).

Nessuno può scordare quanto fossero definitive le installazioni dell’industria chimica a Portotorres e nelle altre aree geografiche dell’isola. Esisteva un detto: “entri alla Sir e ti sistemi per tutta la vita!”. Le stesse cose le abbiamo sentite anche per l’ex Fiat, e, in tempi assai più recenti, per le banche. Poi abbiamo deciso di scuoterci dal torpore ed abbiamo visto che Sir licenziava, Fiat chiudeva stabilimenti e le banche soffrono di serissimi dissesti finanziari e strutturali.

Il risveglio è stato amaro e triste e ci ha avvertito che niente è più labile e fugace delle certezze fondate sugli auspici e sui desiderata.
Ebbene, se i processi produttivi e le fabbriche sono provvisori, è sensato immaginare che anche l’occupazione a questi collegati lo sia in grado direttamente proporzionale. Ma se l’occupazione è fuggevole e caduca, i danni correlati e rivenienti non son tali: danni alla salute delle persone e dei territori.

Ora, fra una perenne condizione di precarietà lavorativa sempre incombente e una permanenza del danno, suppongo che, gioco forza, anche il meno accorto dei nostri amministratori dovrebbe propendere per evitare il secondo dei due termini di confronto, anche se ciò dovesse comportare il sacrificio del primo.

Ma non si era detto che anche il lavoro fosse sacro? Certo! Lo confermo. Io, infatti, sto con i lavoratori, e, conseguentemente, con il lavoro. Ma quale lavoro? Non certo quello che, pur precario, assicura guasti permanenti. Come la giriamo la frittata adesso?
Premetto che in assenza di attività industriale sarebbe logico programmare il risanamento dell’ambiente ed in questa attività occupare i lavoratori in CIG.

Esistono due termini, anzi un’unica locuzione che fornisce una risposta al quesito secondo me più che adeguata. “Programmazione sostenibile”significa semplicemente voler finalmente rinunciare a fare la guardia al ‘bidone vuoto’, per impiegare risorse, energie intellettuali, esperienze professionali e tempo per fare seria programmazione avendo cura di non infierire sull’ambiente circostante. Altro vuoto che si aggiunge al parlare arioso dei politicanti succedutisi in questi decenni sugli scranni di Palazzo Chigi e di via Roma? NO! E lo asserisco in maniera più che perentoria.
Cosa vuol dire fare programmazione seria?

Cercherò di essere il più sintetico possibile, perché il tema è vasto e complesso… giusto un’infarinatura.

Siamo abituati a vedere l’Ente regionale distribuire contributi, incentivi, sussidi, risorse economiche e finanziarie senza un vero e proprio discernimento, senza discrimine e senza aver prima programmato che fare di quelle risorse. Si dice, in questi casi, ‘contribuzioni a pioggia’. Questo modus operandi, alla lunga, oltre a fornire un minimo e transitorio riparo economico alle aziende beneficiate dalla ‘pioggia’, agevola ed incentiva quella che è nota essere l’economia assistita, che tanti danni ha prodotto e continua a produrre nei territori in cui si fa ancora affidamento su questo tipo d’intervento pubblico: la Sardegna, senza dubbio, è proprio uno di questi territori.

Come ovviare al problema e iniziare ad investire i fondi pubblici in iniziative che siano produttive? Non è un lavoro semplice, ma, se e quando ben organizzato, non tarda a dare i suoi frutti.
Una preventiva analisi del territorio, anche circoscritto per aeree geografiche, se ben condotta, dovrebbe far emergere quali siano non tanto, o non solo, quali siano le necessità e le istanze che da lì promanano, quanto, invece, le potenzialità di sviluppo economico/produttivo dello stesso.

Non tutte le zone geografiche sono adatte per il turismo, come non tutte lo sono per l’agricoltura e non tutte si adattano bene ai distretti agroalimentari. Mille e uno fattori concorrono a fornire il segno e la cifra delle potenzialità. Difficilmente una zona geografica priva o con carenti comunicazioni interne può essere proficuamente sviluppata dal punto di vista turistico, anche se fosse ricca e traboccante di bellezze naturali.

In questo caso le cose da fare potrebbero essere due, anche in combinazione fra loro: programmare a lungo termine la realizzazione di moderne vie di comunicazione interne, al fine di prospettare in un futuro non troppo prossimo un modello di sviluppo a vocazione turistica, e, nel frattempo sviluppare altri modelli a più immediata ‘cantierazione’: agroindustriali, artigianali e di allevamento, per esempio.

In ambito agroindustriale, un’oculata e preventiva analisi di mercato (locale, nazionale ed estero) dovrebbe consentire di presagire un equilibrato sbocco ed assorbimento delle produzioni, perché non è più ammissibile confidare esclusivamente sui consumi interni.
La predetta analisi di mercato potrebbe far emergere grandi potenzialità d’espansione per una coltura o un tipo di allevamento a scapito di altre iniziative imprenditoriali. Una conseguente analisi merceologica dovrebbe fornire, sempre in anticipo rispetto al piano di realizzazione degli investimenti, un buon livello di certezze circa l’economicità dell’investimento produttivo.

Sarà stato, infatti, analizzato l’impatto dei costi fissi e di quelli variabili sul costo finale per ogni singola unità di prodotto, e determinato quale debba essere il break event point (fa figo – il punto di pareggio produttivo, al disotto del quale si lavora in perdita e oltre cui si inizia a guadagnare qualcosa) per massa di prodotto (sia monocolturale o genericamente inteso come prodotto orticolo).
Contestualmente sarà stata valutata l’incidenza dei costi di produzione, raccolta, trasformazione, trasporto e della fiscalità.

Per ciascuno di questi componenti sarà stato pure stabilito il livello percentuale di contribuzione al costo. Non mancheranno neppure gli studi adeguati sulle capacità di assorbimento da parte della domanda interna, nazionale ed estera, anche se queste valutazioni sono fortemente interferite da fattori contingenti dovuti alla stagionalità ed altre questioni che sarebbe troppo lungo e tedioso trattare qui.
L’analisi complessiva sarà dunque in condizione di stabilire quante unità di prodotto dovranno essere messe in vendita per ottenere la giusta remunerazione dell’investimento; quante di queste potranno essere assorbite dalla domanda e quanta forza lavoro si dovrà impiegare per raggiungere i livelli previsti.

In definitiva, quante aziende possono sostentarsi grazie a questa attività.

Avuta nozione di tutti questi elementi imprescindibili, si potrà così stimare quali risorse (come modularle) e investitori attivare (consorzi di comuni, regione, stato e/o fondi comunitari), in concorso con i capitali privati e con il sistema delle banche private (noi pare ci siamo giocate prima ‘La banca di casa che cresce con te’, ora pure quella ‘Ovunque nell’isola’, non so se si potrà rimediare). Se l’investimento vale il risultato ipotizzato, si procede con il processo attuativo, diversamente è necessario un ripensamento complessivo che preveda un combinato di iniziative.

Ovviamente, una corretta programmazione può e deve essere strutturata in maniera tale da mettere in campo più strumenti, che, in combinato fra loro, diano il giusto respiro all’intera iniziativa: agenzie di tuttoraggio, incentivazione all’associazionismo, formazione, informazione e comunicazione, leva fiscale e contributiva, riduzione della burocrazia, incentivazione al reinvestimento di quote di utili, pressione nei confronti degli altri protagonisti del processo (anche e soprattutto in direzione comunitaria) affinché si riconosca all’isola uno status che affranchi l’intervento pubblico dalle stringenti maglie delle complesse e cogenti norme esistenti in materia di aiuti di stato.

Evidente che a questo punto una buona programmazione dovrà aver ben chiaro come strutturare gli interventi: finanziamenti per la gestione, per gli investimenti, per le start up e/o un mix dei tre; a fondo perduto, in conto interessi o sempre un mix dei due.
In pratica, a grandi linee, invece di limitarsi alla valutazione, spesso interessata, di un business plan (anche questo fa figo… piano d’impresa) di una singola o più aziende valutate sempre singolarmente, l’ente pubblico dovrà mettere in cantiere la progettazione di un vero e proprio ‘piano economico di zona’, avendo particolare cura di tener conto anche dei vincoli comunitari in materia (De minimis, ESL).

Lo stesso processo, con le varianti che le molteplici e differenti condizioni esigono, potrà essere replicato anche per altre attività produttive.

Bravo! Hai scoperto l’acqua calda. So bene di non aver proposto alcunché di nuovo. In soldoni è questa la metodologia utilizzata dalle grandi banche commerciali per sviluppare i propri affari: una preventiva analisi settoriale per comparti merceologici intrecciata con una del mercato locale, di quello internazionale, della capacità di assorbimento da parte della domanda (in questo caso non spontanea, bensì spesso indotta artificiosamente) e della remunerazione dell’investimento complessivo, è in grado di fornire agli istituti di credito un ottimo livello di conoscenza circa le prospettive commerciali del prodotto da immettere su quel mercato.

Ma se è tutto così facile perché la Regione non ci ha ancora pensato? Io credo che la Regione sappia bene che gli interventi che per comodità chiamiamo a pioggia (non tutti sono tali) non assolvono al compito per cui sono erogati… non fanno rinascere il tessuto produttivo della regione. Credo, invece, che non siano attrezzati sia culturalmente che professionalmente a pensare in termini di programmazione economica a lungo respiro.

Una cosa c’è da dire: il sistema economico che per sopravvivere si basi prioritariamente sull’assistenza pubblica è destinato a permanere in una condizione di sudditanza (mi stava scappando schiavitù) nei confronti di chi quell’assistenza la somministra e fintanto che la Sardegna non sarà in condizione di camminare sulle proprie gambe, i mali atavici che l’affliggono continueranno a perpetuarsi, con buona pace delle velleità indipendentiste, autonomiste e di qualsivoglia altro contenitore cui volessimo far riferimento.