C’è un grido silenzioso che viene dalla campagna, dagli allevamenti ovini della Sardegna.

Nessuno lo sente, nessuno lo vuole sentire. Sono senza voce, gli allevatori di ovini della Sardegna. Nessuno li ascolta.
Il problema è complesso e molto sfaccettato. Bisogna impegnarsi per risolverlo.

È necessario conoscerlo approfonditamente. Non basta conoscere un allevatore per sapere quali sono i problemi del settore. Non basta nemmeno conoscerne due. Non basta nemmeno lavorarci quotidianamente, come faccio io.

Però ho provato ad ascoltarli: lavoro in campagna ogni giorno, pensavo di sapere quali fossero i loro problemi e davo una priorità diversa alle loro esigenze. Invece ho imparato tantissimo solo ascoltandoli. Ecco alcune delle loro testimonianze:

“Io non vorrei tutti questi aiuti, tutta questa burocrazia, questa carta. Io voglio essere pagato per il mio lavoro. Perché, invece di darci questi aiuti, non si assicurano che il latte venga pagato, l’agnello venga pagato, la lana venga pagata? Un prezzo giusto, ma che ci consenta di vivere senza fare l’elemosina”.

“Ci ho pensato sa, tante volte: no, io il latte a 60 cent non te lo do, lo butto, piuttosto! Ora mi fanno anche pagare se lo butto, ci sono i costi di smaltimento! Ma poi ogni anno, ci sono le pecore che devono mangiare, non puoi farle morire di fame, dobbiamo ricominciare la stagione e ci servono soldi, liquidità, per seminare, per il gasolio, per il mangime. A inizio stagione partono quei 10/15.000 euro solo per iniziare. Certo, se i contributi venissero pagati puntualmente, i soldi da investire sull’anno ci sarebbero, ma non arrivano mai puntuali. Se vogliamo iniziare dobbiamo chiedere una caparra al caseificio, all’industriale, e siamo ‘impiccati’ per un altro anno”.

“Sa quanto hanno pagato l’agnello quest’anno? A 2,80 (al kg), i più fortunati a 3,00! E la pelle? 20 centesimi! Proviamo a fare dei calcoli, vuole? Consideriamo un gregge di 200 capi; facciamo una stima ottimistica dicendo che mi producono 1 litro al giorno per 180 giorni (stima molto ottimistica). Sono 36.000 euro, da cui vanno tolte le spese…”.

“Quest’anno se qualcuno me le avesse comprate le avrei vendute: ci sto rimettendo anche la pensione . Ma non me le ha comprate nessuno”.

“Nessuno ci considera, nessuno ci rispetta. Non conosciamo domenica né giorni di festa. I cacciatori entrano, disturbano il gregge, rompono i cancelli o non li richiudono: io la domenica lavoro il doppio, a inseguire il gregge, a riparare i cancelli. Mi hanno anche sparato il cane da pastore qualche anno fa: cercava di difendere il gregge, il territorio”.

“Mangimi troppo cari, gasolio troppo caro: tutto rincara e il prezzo del latte e degli agnelli cala! Quest’anno è un disastro, vedrà, molti lasceranno morire le pecore, non hanno i soldi per dare da mangiare al gregge. Con questa siccità, i prezzi dei mangimi, del foraggio, ecc., saliranno alle stelle. Già col latte a 55-60 centesimi eravamo fortemente in perdita, ma così…È una tragedia”.

“L’instabilità del prezzo non garantisce di impegnarsi, di investire. I cambiamenti repentini di prezzo non consentono di adeguarsi. L’aumento di produzione fa crollare il prezzo. Bisognerebbe bloccare l’incremento del numero dei capi. Quando il prezzo del latte aumenta la maggior parte degli allevatori acquista altri capi, che poi entrano nel pieno della produzione dopo 2 anni: quando il prezzo del latte crolla!”.

“I mangimi ci hanno reso dipendenti. Prima le pecore si alimentavano diversamente e si ammalavano meno”.

“La mia azienda è in una zona disagiata. Per il foraggio io spendo molto più degli altri: non posso prendere le rotoballe, che costano di meno, perché nessuno me le porta su. Devo prendere le ballette, e in più ho il costo del trasporto. Per tutto spendo di più, anche per l’acqua. Per lo smaltimento, per venire qui ogni mattina… non solo il gasolio, ma qui devo cambiare spesso la macchina: dopo un anno su e giù in queste strade, la macchina è da buttare”.

“Siamo costretti a prendere gli aiuti perché altrimenti non ce la facciamo, ma l’aumento della burocrazia è enorme, non riusciamo a star dietro a tutte le scartoffie. Chi ha una moglie, un figlio che se ne occupa, altrimenti dobbiamo pagare qualcuno che lo faccia al posto nostro. E siamo vincolati a tenere gli animali tutto l’anno”.

“Le aziende che fanno reddito sono poche, le fanno sopravvivere con i contributi. Io credevo che migliorassero il piano, invece è peggiorato. Se non piove siamo morti”.

“Non c’è serietà: riaprono le domande e chi l’aveva già fatta ,e gli era stata bloccata, ora è fuori per limite d’età”.

Ma cosa bisognerebbe fare per risolvere la situazione?

“Bisogna sbattere fuori i privati e fare solo cooperative! Anche il consorzio era nato per noi e ora fa prezzi più alti degli altri”.

“La Regione… ci devono aiutare. Se moriamo noi, muore tutta la Sardegna. Chi vende mangimi, attrezzi agricoli e sementi, i macellai, i caseifici, gli autotrasportatori, chi vende i farmaci. Agronomi, veterinari. Tutti dipendono dal nostro lavoro”.

“Bisognerebbe unirsi, e poi ribellarsi. Felice l’aveva fatto…, poi lo hanno inguaiato, e non ha più fatto nulla. Ma unirsi non è possibile, la nostra mentalità non ce lo consente. Le racconto un aneddoto: tanti anni fa diverse persone della zona che avevano delle piccole vigne grossomodo per consumo familiare, decisero di unirsi e produrre vino conferendo alla cantina, invece che produrlo da soli. Sa come finì? Diversi soci versarono l’uva di scarto e con quella buona si fecero il proprio vino! Così per tutto. Sa che ci sono allevatori che ogni anno cambiano caseificio? Non hanno il senso del bene comune, del bene di tutti, del lavoro cooperativo. Ognuno pensa per sé. Noi sardi siamo così.”

Questo è un sunto delle testimonianze che ho raccolto. Ecco perché insisto nell’affermare che hanno bisogno di nozioni di economia e di mercato, lezioni di informatica per imparare a usare il computer, lezioni di cooperazione, concetti semplici, immediatamente spendibili.

Se non gli si fa capire che non si può continuare a pensare la cooperativa come “altro”, alla stessa stregua di un industriale, non si va da nessuna parte. Bisogna ripartire dal senso del bene comune. Non ci si può lamentare che i sardi non comprino l’agnello sardo se poi si fa la spesa nell’ipermercato francese o italiano e si compra la frutta e la verdura spagnola. Bisognerebbe spiegargli che questo meccanismo si combatte ogni giorno, comprando sardo, anche se costa qualche centesimo in più.

C’è un altro aspetto che trovo inspiegabile: perché gli allevatori di ovini della Sardegna risultano così antipatici da non suscitare la solidarietà da parte della gente comune?

Io li stimo. Considero il loro lavoro bellissimo, difficile e importante. Penso che saranno gli unici a potersi veramente opporre al “land grabbing”. Le persone intelligenti e che hanno a cuore il futuro ecologico della Sardegna dovrebbero stare al loro fianco.