Il mare è il confine naturale che ti dà un’identità. Nascere in un’isola è una cosa per la quale non ti senti mai abbandonato, che ti resta tatuata addosso per sempre, come un marchio che ti identifica e che ti cotraddistingue dal resto; è un modo preciso di percepire lo spazio, il tempo, il destino che ti ha scelto a nascere, vivere e partire da lì.

Nascere in un’isola è come sentirsi dire che stai da una parte della riva, che calpesti quella terra e non un’altra e che il mare che hai davanti è solo quell’orizzonte in cui Dio ti fa intendere da subito che hai la possibilità di andartene.

Così che diventi immigrato prima di fuggire, lo sei in potenza prima che in atto, nella testa prima che nel cuore, nell’idea prima che nella realtà, nella scelta prima di aver deciso.

E allora si passa tutta la vita a chiedersi come sarebbe a “casa” se alla fine si e’ deciso di sbarcare in un altro porto, oppure come sarebbe “altrove” se alla fine si e’ deciso di restare, di rimanere speranzoso. Nascere in un isola vuol dire questo. Vuol dire essere segnato da questa incertezza. Vuol dire anche che si rischia di vivere come chi non vorebbe vivere, con la storia che passa accanto al quotidiano mentre in silenzio sfugge l’essenza.

Chi è nato o cresciuto in Sardegna, vivrà con questa nostalgia di una vita che ha deciso di non intraprendere. Vive aldilà della scelta nel suo isolamento quotidiano tra il partire e il rimanere. Tra la decisione e il fare. Tra Essere, o essere scelti.

E allora vedi giovani che ben istruiti e con capacità decidono di andare mentre proprio ora la loro terra ha bisogno di loro per risorgere, per competere, per insegnare, per innovare. Ma si sa, ad andarsene sono bravi tutti mentre per restare non solo bisogna essere generosi, ma coraggiosi.

Dire questo oggi, in tempi così complicati e con molti Governi di emergenza impegnati a fare tutte quelle riforme che la politica ha rimandato per anni, non è assolutamente una passeggiata.

Quando ti accorgi sin da studente che l’immobilismo nostrano, radicato nei secoli distruggerà le aspettative e la speranza di emancipazione, anche dell’ultima generazione, non ti resta che partire, scappare il più lontano possibile da una terra che non ti da risposte, che non vuole ascoltare e che forse, senza dubbio, non accetti in modo definitivo.

Poi c’è anche la speranza. Quella che non dovrebbe mai morire e che ti illude che le cose prima o poi cambieranno anche in Sardegna. Anche, non solo.

Tuttavia sono convinto che la rassegnazione e la stanchezza non appartengono all’anima dei sardi. La loro creatività, il loro ingegno e la capacità di sollevarsi e di uscire dai limiti – quando utilizzano le loro migliori capacità e sanno stare in comunione – appartengono all’anima della Sardenga.

La storia di donne e di uomini che gettarono le fondamenta per il bene comune, per una nuova civiltà nel mondo, per una cultura evoluta e che si rinnova ogni giorno da millenni, lo hanno testimoniato e ci dicono che tutto questo è possibile.

E allora, se tutto questo viene condotto a memoria, come mai non vi è re-azione? Come mai si vuole “stare” nella scontentezza e non aspirare ad una vita più elevata? A dire: “guarda! Questo non mi basta, ho bisogno di altro”. Che cosa ti è successo, Sardegna?

Terra di poeti, di pastori e minatori, di artisti e di pescatori, di letterati, di pensatori ed emigrati? Cosa ti succede se hai fame e sete di giustizia? Che cosa ti è successo tu che sei la madre di grandi uomini e donne che hanno saputo dare vita e mantenere millenarie tradizioni?

Dove è finita la nostra memoria? Quella che ci aiuta ad evocare i Padri fondatori della nostra storia e che loro stessi ebbero l’audacia non solo di sognare, ma che osarono trasformare radicalmente quando in tanti cercarono di mutare la nostra identità?

Loro che trovarono soluzioni ai problemi che, a poco a poco, diventavano soluzioni di tutti e senza che oggi, avvolti da una nebbia di smarrimento, se ne conosca la radice.

Dobbiamo imparare dai grandi maestri, da questi maestri, non dalle chiacchiere.

Va detto inoltre che chi potrebbe andarsene dalla Sardegna e non lo fa, va ricordato. Perché restare in Sardegna se si può non è un alibi, ma un diritto. Cosi come chi vorrebbe tornare e non lo può fare, non si può sentire una vita in esilio.

La capacità di scegliere passa da quella è questa libertà. Che a ragione o a torto si mescola con chi si lamenta sempre che “le cose non vanno”, “che si è isolati e quindi penalizzati”, “che si vale poco”, “che non si è all’altezza di…”.

Tuttavia se si pensa, ci si rende conto che c’è un vantaggio a dire “che si vale poco, che non si è all’altezza”. Significa non prendersi delle Responsabilità: sulle proprie scelte, su quelle dei propri figli e delle generazioni. Non prendersi Responsabilità delle proprie azioni. Quasi a poter dire: “lo sapevate che valiamo poco…”.

Ecco noi siamo anche questo. C’è quindi un vantaggio a dire che non si vale: da “un’apparente sicurezza” alla vita. Contribuisce a non decidere e a far decidere altri per noi.

Ed ecco il dramma della mancanza di consapevolezza che vive da sempre la Sardegna. Su chi ha paura e non ha coraggio (come se i coraggiosi non avessero paura!). Su chi si nasconde nella confusione perché la chiarezza spinge a scegliere.

A voi che siete figli e nipoti di periodi storici anche peggiori di questo, che danno forza e hanno avuto la forza di dare un futuro a se stessi e alla propria famiglia e che non si sono arresi ad una vita di stenti a lottare con dignità, rappresentate una grande forza: siete il motore del cambiamento di quella Terra.

Perché, in un modo o in un altro, anche queste nuove generazioni, pur vivendo in mezzo ad una crisi di valori profonda, sia presto consapevole ad esprimere la fioritura di un nuovo Rinascimento.