Il prossimo 11 febbraio si terrà a Sassari un’importante giornata di studio e dibattito sui “diritti dei sardi nel XXI secolo” e avrò il piacere e l’onore di essere uno dei relatori.

Il tema è la necessità di riscrivere lo Statuto autonomistico, ma il dibattito ha l’aria di profilarsi come tutt’altro che pedante o meramente accademico. Interverranno quasi tutti gli esponenti dei movimenti per l’autodeterminazione che hanno rotto con la giunta Pigliaru o che non vi hanno mai avuto niente a che fare. E chi non interverrà è stato comunque invitato a dire la sua. Inoltre interverranno politologi, costituzionalisti, storici e sociologi di primo piano.

Certo, non è il primo incontro in cui si tratta l’argomento. In passato si è spesso parlato di dover riformare lo Statuto. In particolare all’inizio del nuovo millennio il dibattito è stato accelerato dalla riforma del Titolo V della Costituzione italiana e, ormai più di dieci anni fa nel 2005, il Consiglio regionale aveva approvato un ordine del giorno sull’avvio delle Riforme istituzionali che avrebbe dovuto avviare un processo di profonda innovazione dell’autonomia speciale della Sardegna.

Ci si proponeva di riscrivere lo statuto facendo leva sulla più ampia partecipazione democratica della società sarda e addirittura taluni annunciavano l’avvio di un percorso costituente e l’immediata convocazione degli “Stati Generali del Popolo Sardo”.

Un filosofo diceva che la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, il che sembra davvero appropriato per il caso in esame: cosa è rimasto dei bei propositi di «riconoscere l’identità sarda», di «introdurre elementi di sovranità e di autogoverno della Regione, specie dove più invasiva ed invadente resta l’azione del Governo centrale, e dunque in materia di servitù militari, gestione del patrimonio storico, culturale, linguistico, organizzazione e gestione degli organismi preposti alla tutela del patrimonio ambientale»? – le citazioni sono tratte dai documenti istituzionali di allora.

Cosa rimane del proposito di istituire un «ordinamento che concepisca ed organizzi l’autonomia speciale come sistema equiordinato, imperniato su Comuni, Province e Regione in un rapporto di pari dignità istituzionale, diretto a promuovere attraverso strumenti di perequazione il superamento degli squilibri territoriali»?

A leggerli oggi, adistanza di 12 anni, questi propositi hanno un sapore amaro se non della vera e propria presa per i fondelli. Non solo negli ultimi diecianni questo dibattito è caduto completamente nel vuoto, ma le povere cronache politiche delle ultime due giunte regionali ci raccontano una realtà completamente opposta fatta di politiche subalterne e smantellamento di quelle timide tracce di sovranità o anche semplicemente amor proprio, di cui disponevano i cittadini sardi.

Alla luce di tutto ciò credo che si possa tornare oggi a parlare dei diritti dei sardi e della carta che li dovrebbe garantire ad una condizione politica ben precisa, cioè assumendo come presupposto la non affidabilità della classe politica espressa e selezionata dai partiti italiani che si sono alternati al governo della RAS negli ultimidecenni.

A base del nostro ragionamento ci deve essere una piena e determinata mozione di sfiducia verso tutto ciò che dicono e propongono questi signori perché tutte le belle parole tirate fuori dal cilindro della propaganda da parte delle coalizioni governative si sono dimostrate carta straccia.

La prima cosa che dobbiamo chiarire è dunque la seguente: Oggi, Sardegna 2017, è possibile discutere dei diritti dei sardi, di quelli che abbiamo già ma magari non utilizziamo appieno e di quelli che sarebbe ora conquistare solo a patto di avviare un percorso politico nuovo, unitario e plurale di tutte le forze favorevoli all’autodeterminazione che hanno tagliato il cordone ombelicale con l’illusione dell’entrismo.

Il non esercizio dell’autonomia e conseguentemente la mancata spinta a conquistare nuovi diritti e nuove competenze non è infatti il frutto del caso o della sfortuna e ancor meno di una non meglio identificata attitudine dei sardi all’incapacità, bensì di una precisa volontà politica subalterna su cui si è basata tutta l’azione dei partiti e dei movimenti della prima e della seconda Repubblica.

La seconda cosa che dobbiamo chiarire è che cosa significa “parlare dei diritti dei sardi” a proposito della nostra carta statutaria.

A mio parere ciò implica un doppio movimento riformatore: 1) individuare tutti quei punti dello Statuto che a causa di una precisa volontà politica subalterna non sono stati applicati o non lo sono stati in maniera adeguata; 2) individuare tutti quei diritti fondamentali che nello Statuto sardo non sono annoverati e che fanno del nostro Statuto una carta debolissima, sicuramente una delle carte statutarie più deboli d’Italia e d’Europa.

Partiamo dal primo punto, cioè i punti non applicati. È un luogo comune molto utilizzato il dichiarare che “l’autonomia ce l’abbiamo, ma non viene utilizzata a causa della nostra classe politica”. Come tutti i luoghi comuni c’è sia del vero che del falso.

È vero che nello Statuto sono presenti diversi punti non applicati o applicati modestamente. È falso che anche se essi fossero applicati saremmo realmente autonomi.

Per esempio l’articolo 4: «la Regione legifera su industria e commercio» mi ricorda il detto di Tacito “ubisolitudinemfaciunt, pacemappellant”.Per decenni abbiamo lasciato che avvoltoi senza scrupoli prendessero finanziamenti regionali, facessero finta di avviare un’attività industriale e poi scappassero portandosi via i macchinari acquistati con i nostri soldi, lasciando gli operai e le operaie nella disperazione.

Abbiamo perfino competenza nell’«istruzione di ogni ordine e grado», ma nella scuola della Sardegna non solo non si insegna insardo e non si insegna il sardo, ma non si studia neppure la nostra storia ed non esiste un’attribuzione di punteggio di residenza per permettere ai docenti sardi di lavorare nella loro terra. Gli esempi di punti statutari non applicati o applicati malamente sono davvero tanti e ci tornerò in sede di dibattito a Sassari. Qui mi interessa evidenziare l’esito politico del ragionamento: come diavolo hanno fatto tre generazioni politiche a definire se stessi come “autonomisti” se hanno bellamente ignorato i punti basici dello Statuto?

La seconda questione strategica riguarda i diritti che nello statuto non compaiono, a differenza non solo degli statuti dei baschi e dei catalani, ma anche di altre nazioni presenti in Italia come i ladini e i sudtirolesi. Ed è il motivo per cui il luogo comune sull’autonomia che non viene fatta valere è vero solo a metà. L’autonomia statutaria è profondamente deficitaria e soprattutto risulta priva di basi.

Nello Statuto il concetto di «popolo sardo» compare solo una volta nella versione originale, precisamente nell’articolo 28. Recentemente, nel 2001, nelle modifiche all’articolo 3, ricompare la parola «popolo» riferita ai sardi. In entrambi i casi tale categoria risulta irrelata, quasi fosse una svista del legislatore. Forse agli scriventi questo “popolo sardo” è scappato dalla penna, perché da nessuna parte si spiega cosa sia, quali caratteristiche abbia, di quali diritti goda e, in effetti, nemmeno se esso esista dal momento in cui altrove si parla molto più semplicemente di «elettori sardi».

In che cosa consiste la nostra specialità, se nello Statuto che la sancisce non si fa alcun cenno né al nostro essere “popolo”, né al nostro costituire una nazione distinta e storicamente determinata, né alla nostra lingua, né alla nostra storia, né alla nostra cultura?

E soprattutto nello Statuto scompare la questione della sovranità popolare. Un popolo, dalla rivoluzione francese in poi, esiste se è sovrano, altrimenti è suddito. C’è poco da girarci intorno, le cose stanno così!

Stando così le cose appare del tutto logica e comprensibile la sentenza dei giudici della Corte Costituzionale che, nel 2007,bocciaronola riscrittura dello Statuto voluta da Renato Soru. Ricordate la motivazione? Un «Popolo Sardo sovrano non esiste», perché secondo la Costituzione italiana c’è solo un popolo sovrano, vale a dire quello italiano.

A questo punto ognuno dovrebbe scegliere da che parte stare, cioè stabilire se essere organici all’insieme di forze che negli anni hanno praticato supinamente politiche subalterne o se al contrario metterci a capo di un grande movimento di idee, valori e azioni capace di costruire una nuova volontà collettiva dei sardi e di realizzarsi in un grande movimento popolare che faccia valere tutti i punti dello statuto finora non applicati e insieme conquistare l’orizzonte di alcuni fondamentali diritti inalienabili che oggi si ha perfino timore a pronunciare, come “diritto all’autodeterminazione”, “bilinguismo”,“sovranità fiscale”, “sovranità economica”.

Di ciò dobbiamo parlare, del passaggio dalla volontà subalterna a rimorchio degli interessi dello stato italiano alla volontà collettiva dei sardi, garantita da una nuova carta costituzionale.

Altrimenti parlare di Statuto si riduce ad essere solo un vuoto esercizio di retorica, arte in cui la classe politica coloniale di Sardegna è sapientemente esperta.