(Pro lèghere s’artìculu in sardu pùnghere subra sa bandera in artu)

Domani i pastori marceranno su Cagliari. Se la memoria non mi inganna si tratta della quinta manifestazione di questo tipo negli ultimi undici anni. Con un ordine del giorno immutato e una piattaforma che prende avvio sempre dallo stesso punto di partenza: il prezzo del latte troppo basso.

Sono passate tre Giunte regionali eppure il problema è uguale, anche perché non sono cambiate le politiche, non è cambiato il mercato, non sono cambiate le aziende, nessuno strumento di indirizzo e di governo del comparto è apparso all’orizzonte. Così come accade per ogni settore nevralgico della Sardegna: si va avanti per inerzia, inseguendo le emergenze e facendosi mancare il coraggio per agire non solo in discontinuità ma in aperta rottura con il recente passato.

Sul tavolo di una crisi che è oggettivamente gravissima (e oggettivamente inevitabile, analizzando le condizioni del mercato e la debolezza delle aziende zootecniche sarde) ci sono soluzioni-tampone: quella scelta dalla competente commissione regionale, quella avanzata da Coldiretti e quella del movimento La Base, che è l’unico – tra quelli rappresentati in Consiglio – ad aver partorito una proposta organica.

Manca, certamente, una proposta che rivoluzioni il sistema e che porti alla Sardegna – a regime – a uscire da un’emergenza che tutti definiscono ciclica. Come se queste scadenze su base pluriennale portassero in sé qualcosa di ineluttabile.

Da dove partire? A mio avviso, anzitutto, chiarendo che ogni intervento di sostegno al settore che non preveda ricadute dirette sul prezzo del latte rischia di risultare inutile, se non controproducente.

Il problema, in questo caso, è culturale: i pastori – che in molti casi gestiscono le loro aziende individuali nello stesso modo in cui erano gestite negli anni ’70 e ’80 – devono finalmente decidere se vogliono morire da conferitori o vivere da imprenditori di se stessi, partecipando attivamente al processo produttivo post-mungitura e alle dinamiche di mercato.

Per farlo serve una rivoluzione anzitutto nella loro mentalità. È mai possibile che il prezzo del latte non venga condizionato (se non determinato) dai detentori del prodotto? Gli allevatori hanno la triplice possibilità di cederlo direttamente ai trasformatori industriali, alle cooperative o addirittura trasformarlo da sé.

In quest’ultimo caso si salterebbe il problema del prezzo del latte, ovvio. Conterebbe solo il prodotto finito e la capacità delle aziende di creare qualità e poi modernità e innovazione sul mercato.

Gli industriali, come si sa, sostengono di non essere loro a determinare il prezzo ma il mercato. Ma loro nel mercato non ci sono e non ne sono parte fondamentale?

A Pozzomaggiore, venerdì scorso, i pastori mi hanno detto di essere al collasso. Un litro di latte passa di mano a 0,45 euro, a 0,50 quando si è fortunati. E produrlo pare non costi meno, a conti fatti, di 0,65. Se così fosse, significa che in questo momento i pastori stanno finanziando gli industriali.

Dunque, quando il prezzo del formaggio sale, a guadagnarci è l’industriale. Ma quando scende a rimetterci è il pastore. È questa condizione a produrre la spirale dell’assistenzialismo, sotto forma di contributi a fondo perduto di assistenza alla produzione e di integrazione al reddito.

Soluzioni? Più di dieci anni fa si sperimentarono le Organizzazioni di prodotto che riunivano le cooperative di trasformazione, poi presto accantonate per non disturbare troppo gli industriali. Perché, nel contingente, la soluzione più praticabile sarebbe proprio quella di fornire ai detentori della materia prima uno strumento in grado di aggregare il prodotto e andare direttamente sul mercato, senza intermediazioni.

Ma non è da escludere nemmeno a priori, senza conoscerla nel dettaglio e proporla in un tavolo a cui chiamare tutti i soggetti del sistema, che possa essere utile praticare anche la proposta oggi esplicitata nel suo blog dall’assessore Maninchedda, che guarda con interesse a quel che accade dall’altra parte del mondo, in un continente australiano che è da sempre stato un modello per quel che riguarda il settore ovino.

Quella del comparto zootecnico è una battaglia decisiva per il futuro della Sardegna e della sua tenuta sociale. I poli rurali vanno ripensati e valorizzati, riorganizzati e riabitati. Niente può rimanere com’è, se non i pochi esempi virtuosi e resistenziali.

Serve il coraggio di una grande riforma di sistema, che non prescinda dall’istruzione, dalla formazione, dall’investimento culturale e dalla responsabilizzazione dei veri esperti, che la politica deve chiamare a sé senza timori né più tentennamenti.