(Pro lèghere s’artìculu in sardu pùnghere subra sa bandera in artu)

Provate a immaginare una Fiat Topolino della fine degli anni 40, revisionata appena due o tre volte negli ultimi decenni, mentre viaggia sulla prima corsia di un’autostrada con decine di vetture di ultima generazione che la sorpassano tra l’irritazione degli altri conducenti e la curiosità dei loro passeggeri.

Difficile credere possa verificarsi nella realtà, essendo di gran lunga più verosimile come scenetta con protagonista Fantozzi o Mr Bean.
Ma qualcosa di molto simile ci riguarda tutti dato che purtroppo, traslando questa metafora nel campo delle istituzioni, appare palese il formidabile anacronismo che contraddistingue l’istituto autonomistico sardo.

E’ sufficiente dare uno sguardo al testo dello statuto speciale perché ci possiamo rendere conto di quanto questo, nonostante gli aggiornamenti apportati negli anni, faccia riferimento nel suo complesso a un contesto storico ormai archiviato e come di conseguenza sia totalmente inadeguato rispetto alle esigenze della Sardegna di oggi così come nei confronti delle sfide future di in un ventunesimo secolo entrato ormai a pieno regime.

Essendo tuttavia largamente diffusa tra uomini di cultura e delle istituzioni così come presso il cittadino comune dell’isola la valutazione prepolitica e pregiuridica secondo cui la specialità, lungi dall’essere anacronistica e interessata rivendicazione localistica, costituisce al contrario conditio sine qua non per lo stesso permanere della Sardegna all’interno dello Stato italiano, è tempo che ragioniamo seriamente sulle sorti della nostra autonomia che vedo piuttosto fosche, a meno che non ci diamo una regolata.

Questa sensibilità diffusa trova infatti un controcanto sempre più forte nelle esternazioni di giornalisti, uomini di cultura e politici della penisola (tra cui il compianto Mario Cervi, il sociologo Giorgio Alberoni, l’ex ministro delle riforme Maria Elena Boschi e il presidente di Federconsumatori Trefiletti) che non mancano di rimarcare come quello delle Regioni a statuto speciale sia in generale un istituto desueto oltreché onerosissimo per le casse dello Stato.

E’ evidente che ogni Regione fa storia a sé e non c’è dubbio che se consideriamo ad esempio quella con maggiori affinità geografiche rispetto a noi, la classe dirigente sicula sia stata manifestamente disastrosa in termini di malgoverno e spreco di risorse pubbliche, al punto che la salace penna di Pietrangelo Buttafuoco, in una sua recente pubblicazione cui ha voluto dare l’eloquentissimo titolo di “Buttanissima Sicilia. Dall’autonomia a Crocetta, tutta una rovina”, ha proposto il commissariamento e la successiva soppressione di quello Statuto di autonomia.

Questi sono evidentemente problemi loro. La Sardegna è un’altra cosa. non c’è dubbio. Lo è nel senso che l’autonomia della Trinacria, più che da cultura e insularità, aveva avuto una sua giustificazione nelle vicende che ne avevano caratterizzato il dopoguerra, con la necessità strategica da parte dello Stato di tagliare l’erba sotto i piedi all’allora fiorentissimo movimento separatista di Finocchiaro Aprile e dell’EVIS.

Fu una scelta vincente, dato che questi si sciolsero come neve al sole in meno di un lustro (cinque anni). Lo è perché, se si escludono rarissimi casi assurti a loro tempo agli onori delle cronache, la nostra classe dirigente è sempre stata decisamente più responsabile nel’amministrazione della cosa pubblica.

Lo è soprattutto perché geografia, lingua e storia rendono la Sardegna una nazione compiuta, ancorchè priva di una sua statualità internazionalmente riconosciuta, mentre sotto tutti questi aspetti (e non solo questi) la Sicilia costituisce nel bene e nel male il naturale continuum della Penisola italiana e calabra in particolare.

(continua)