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Si può essere fortemente identitari ed allo stesso tempo aperti al mondo.

Indipendenza non significa chiudersi, sdegnosi, entro i propri angusti confini in difesa di specificità che, all’interno della fortezza eretta a loro protezione, invece di essere esaltate e valorizzate rischierebbero di essere mortificate e marginalizzate ancor più di quanto lo siano adesso.

Il concetto d’indipendenza non si declina con l’erezione di nuove frontiere o nuovi muri, ma, forte della propria forza, delle proprie qualità e della bellezza degli incanti naturali, deve scovare la forza per confrontarsi con alterigia con il mondo esterno.

La Sardegna non deve conquistare il mondo, in Cina si perderebbe, quel mercato la fagociterebbe. Deve, invece, conquistare gli spazi che le competono, che la qualità dei suoi prodotti e della sua naturalità le consentono. Non deve scalare le classifiche del Pil, deve, invece, riuscire ad invertire la tendenza che la vede imboccare una china assai preoccupante, che va dallo spopolamento delle zone interne, all’invecchiamento della popolazione, all’emigrazione di forze fresche ed energie per il domani.

Ha da programmare politiche sociali ed economiche che siano adeguate al territorio, smettendo progressivamente di far la guardia al morto solo per preservare tre o quattro decotti posti di lavoro. Il ricatto occupazionale è un vulnus pericolosissimo che inquina sia la voglia di fare che i territori.

La Sardegna non è fatta per l’industria pesante. Deve trovare le forze economiche per abbandonare con sapienza le attività che consumano territorio e che lo inquinano, privilegiando ed impegnando risorse economiche ed intellettuali ed energie per quelle attività che ben si sposano con ambiente, territorio, cultura e tradizioni.

Non ha da misurarsi con la grande finanza, non le serve, la stritolerebbe. Deve, invece, riottenere la capacità di finanziare la sua imprenditorialità attraverso l’appoggio di una banca (che oggi ancora esiste) che faccia del suo radicamento nel territorio la propria forza e ragione d’essere e che sappia intercettare e rendere disponibile la gran messe di fondi pubblici che l’appartenenza ad un macrosistema economico destina annualmente a determinate aree geografiche. Deve riuscire a fare della sua debolezza la propria forza e sfruttare le opportunità che questa debolezza le offre.

Non ha necessità della grande industria, ma di un’imprenditorialità diffusa, ben equilibrata dal punto di vista patrimoniale e che non si intralci da sola con improbabili sovrapposizioni che riducono l’ossigeno e non creano futuro. Che sappia collaborare per innescare un processo virtuoso che agevoli ed incentivi un sistema integrato di filiera.

Ha le campagne da abitare. Per vincere questa difficile scommessa, non ha necessità d’importare modelli copiati da chissà dove. Ha da rendere produttiva ed innalzare il valore aggiunto delle attività che l’hanno contraddistinta da sempre e fatta conoscere nel mondo.

Innovare senza disperdere il patrimonio di sapere che contraddistingue le nostre produzioni lattiere e pascolative. Far crescere quelle autoctone senza cedere al richiamo del facile guadagno che tramuterebbe i nostri ovili e le nostre stalle in porcilaie troppo simili a quelle modenesi, parmigiane e reggiane. Non abbiamo bisogno d’incrementare la produzione a scapito della qualità. Dobbiamo riuscire a fare al meglio quel che già sappiamo fare ed invece di farlo da soli, individualmente, cercare di farlo in maniera più corale e sistemica.

Indipendenza non significa stabilire un nuovo confine, seppure naturale, fra noi e gli altri, semmai abbatterli i confini e con essi anche i dazi e, soprattutto, il carico fiscale che rischia di soffocare le nostre produzioni. Abbiamo bisogno urgente di una Zona Franca che attiri investimenti ed induca l’insediamento di imprese che stavolta dovranno rispettare assolutamente certi ben definiti criteri.

E stavolta sarebbe possibile imporre le nostre decisioni e anteporre le nostre di necessità a quelle altrui, perché finalmente la Sardegna potrebbe diventare la gallina che sforna uova d’oro.

Avere il coraggio di far nascere un’idea d’indipendenza significa riuscire ad ottenere forze e stimoli, nonché volontà e convinzione, da queste specificità culturali e da questi incanti naturali per imporre a noi stessi (in primis), quindi agli amministratori pubblici a tutti i livelli possibile, un governo dell’economia e della cultura che non dipendano da modelli esogeni che nel passato hanno stuprato anime e territorio sardi.

Modelli indipendenti, appunto, che siano il giusto compendio e la più coerente realizzazione delle potenzialità del territorio e delle reali esigenze della popolazione. Che sappiano confrontarsi convenientemente con quelli d’oltremare, e di questi non siano economicamente, tecnologicamente e qualitativamente succubi ma con i quali entrino in aperto, franco e paritario dialogo.

Appartenere ad una terra, ad un territorio, alle sue tradizioni e costumi, ai suoi incanti, significa riuscire a mettere le nostre particolarità e ricchezze in dialogo costante con le altre che impregnano ciò che ci circonda. Nel passato storico la nostra terra si è impreziosita della cultura di altri popoli con cui è entrata in contatto, e i sardi non sono un’enclave impermeabile al mondo esterno, sono, siamo un crogiolo di sangui e culture diverse.

E se anche fosse vero che non esiste un popolo sardo, esiste sicuramente chi questa terra l’ha ricevuta in eredità, come bene ha segnalato Davide Casu qualche giorno fa, per cui abbiamo il compito di preservarla per consegnarla a chi verrà dopo di noi.

Entrare in intimo contatto con la nostra cultura, fino a sentirla parte di noi, significa misurarsi da abitatore della Sardegna, e con la fierezza di essere tale, con il mondo, con il resto dei paesi e delle culture.

Troppo spesso decliniamo il termine ‘indipendenza’ con uno stato giuridico o economico libero dai legami con il resto dell’Italia. Son convinto non sia il modo migliore per concepire il concetto di indipendenza. Non è quella giuridica che ci serve, bensì quella progettuale, programmatica che investa risorse e intelligenze mettendole al servizio di un fine, e questo fine altro non è che la Sardegna.

Un Governo regionale illuminato, che abbia a cuore il futuro della regione, avvertirebbe l’urgenza di stipulare un nuovo patto con il Governo centrale, e un nuovo patto sociale con i cittadini sardi. Accordi che, finalmente, avrebbero l’obbligo di porre al centro dell’azione amministrativa le esigenze del territorio e dei suoi abitanti.

Un accordo federativo che vincoli Stato e Regione al rispetto reciproco ed escluda l’imposizione di norme di supremazia cui soggiacere quando queste sono a palese danno dell’isola. Solo così il rapporto potrà essere rispettoso e paritetico.

Mi rendo conto che si tratta di parole… Belle, brutte, ha poca importanza. Il nostro impegno deve essere quello di riuscire a tradurre questi buoni propositi, queste parole in atti concreti, senza attendere che sia la politica a muovere il primo passo, almeno per quanto e quel che è in nostro potere di fare. La politica seguirà, noi non possiamo attendere lo scioglimento dei ghiacciai perché il mammuth si svegli dal letargo ed inizi ad operare nei dovuti modi. Dobbiamo agire, subito