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Il territorio di Surigheddu, che prende il nome dall’azienda che per circa un secolo ha qui svolto le proprie attività produttive, oggi ingloba anche le tenute di un’azienda contigua, quella di Mamuntanas, con un’estensione totale di 1326 ettari.

Quasi tutta la regione è compresa nell’area occupata dalle vulcaniti, a parte una piccola porzione che, oltre il Rio Barca, maggior afferente del Calich, va a occupare anche la piana alluvionale di origine sedimentaria.

Tra rii, larghe distese di incolto, ed un ampio bacino di raccolta, Surigheddu-Mamuntanas nel suo insieme ha una posizione mediana rispetto all’area della Bonifica, a quella delle colture intensive e della corona olivettata, ed anche in passato, per la generosità dei suoli e l’abbondanza di risorse idriche ha ricoperto un ruolo centrale nel territorio, così come anche testimoniato dalle numerose presenze archeologiche che costellano l’area lungo il Rio Serra, poi Rio Barca.

Dopo la dismissione delle attività all’inizio degli anni ’80, la zona ha funto come ampia zona di pascolo, mentre le strutture sono andate incontro ad un progressivo degrado ed abbandono.

Nel futuro più prossimo l’area verrà interessata da un attraversamento veloce a 4 corsie che ne determinerà una ulteriore e importante rottura.

I terreni dell’azienda, dopo numerosi fallimenti, sono ancor oggi proprietà della RAS, ancorché il comune di Alghero rivendichi un passaggio di consegne con varie proposte ancora al vaglio della Giunta Regionale che da ultimo però ne propone la vendita.

Dapprima è opportuno ricordare come l’azienda abbia vissuto il suo periodo di maggior splendore nella forma cooperativa. Al cessare di questa, Surigheddu conosce un costante declino sino all’abbandono.

Questo aspetto, per ciò che concerne la storia dei luoghi, è fondamentale nella progettazione e rigenerazione dell’area che evidentemente deve trovare nella politica coraggio e lungimiranza, nel preservare un patrimonio ambientale all’interno di una dimensione pubblica che, certo può contemplare contributi privati a titolo di concessione, ma nella programmazione del futuro deve mirare a garantirne lo status di Res Publica.

Affermo ciò, nell’idea che ho sviluppato circa il riassetto dell’agro Algherese che vede quest’area come potenziale catalizzatrice di processi positivi, sia per una continuità ambientale che parte da Porto Conte, passando per il Calich e arrivando a Surigheddu-Mamuntanas, sia per una nuova continuità sociale.

Vi è più l’idea di una circonvallazione ambientale piuttosto che infrastrutturale. Si rende necessaria un’operazione del genere in particolar modo nella salvaguardia della dimensione agricola e ambientale fronte alla speculazione che ancora preme sulla città.

Gli interessi privati che hanno pesato fortemente sugli assetti urbanistici e territoriali e quindi socioeconomici di Alghero, che potremmo dire alquanto malsani, non pare positivo vengano accompagnati da un’ulteriore cessione di interesse pubblico al privato.

Altresì la gestione del patrimonio pubblico quale cessione al privato non s’addice al concetto di politica quale governo pubblico del territorio, e palesa un’incapacità tutta occidentale di pensare la vita assieme, fomentando individualismi che propriamente il pubblico, tramite iniziative di carattere collettivo, deve lenire e contrastare.

Un territorio come il nostro, vessato da paure e mancanza di futuro, ha quanto mai bisogno di smettere di soffocare stipato sulla costa, deve invece rivolgere il proprio sguardo al patrimonio sito dietro le proprie spalle, di cui Surigheddu, nella sua dimensione pubblica, può e deve essere elemento centrale di sviluppo e occupazione, nella collettiva progettazione del futuro sociale e umano della nostra vita.

Infine premo per lasciarvi con un concetto a me molto caro per ciò che penso deve essere una nuova maniera di guardare il territorio: non più elemento materiale ed economico, ma elemento della vita intima della comunità futura.

Pochi giorni fa, coi miei colleghi percorrevo le stradine dell’agro algherese, tra pozzanghere e tappeti di foglie dall’odore acre e pungente, ché la sera prima era piovuto ed i profumi si facevano forti nell’aria.

Le viti spoglie contrastavano il vivido verde degli alti eucalipti che nella regione della riforma si stagliavano alti a troneggiare su quelle linee ordinate, sui campi messi a coltivazione, coi rumori dei trattori e poi silenzi sui carciofai in attesa di una gelata. Il mare di vigneti di Sella&Mosca si smarriva in un orizzonte indefinito, sulla Nurra protesa sui due mari.

E poi c’era Surigheddu, irrorata di rii, interposta tra quella monotona bellezza e le arzigogolate ragioni degli olivi, trattenuti all’interno di spazi informi, quasi irrazionali, squisitamente vivaci.

Ci soffermammo a esplorare Surigheddu: a volte era stato luogo di scorribande infantili, di libertà fatta di incontri inattesi, di voli di tordi, occhioni abbindolati dal rio Barca, gli steli di grano che accarezzavano le nostre mani di bimbi, oppure ammansivano i ricordi di vecchi contadini, o ritempravano l’animo di babbo, quando il fine settimana giungeva, col solo desiderio di scrostarsi degli affanni della settimana.

C’era una lentezza che mi stava dinanzi agli occhi, una lentezza di profumi, di passi, di voli attorcigliati al cielo, di suoni che ti giungono all’udito con cortesia.

Riflettei a lungo mentre che la mia bicicletta scorrazzava per tutte quelle stradine appena accennate e sussultai per la voglia che avevo di fare di quel luogo un diritto di tutti, ed un dovere verso me stesso e la mia città, verso un mondo nuovo che là nella linea del tempo avrebbe tardato poco a farsi vedere.

*dottore in Urbanistica