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È morto Tullio De Mauro. Autorevole linguista, ha avvicinato la capacità di visione di Michelangelo Pira a quella di Pier Paolo Pasolini

Linguista, docente universitario, saggista, autore del Grande dizionario italiano dell’uso e della Storia linguistica dell’Italia unita, aveva 84 anni ed è stato una delle figure più importanti della cultura italiana. Ministro della pubblica istruzione dal 2000 al 2001. Fratello di Mauro De Mauro, il giornalista de “L’Ora di Palermo” rapito e ucciso da Cosa Nostra il 16 settembre del 1970, il cui corpo non è mai stato ritrovato.

Attraverso la lingua De Mauro guardava alla cultura delle persone e alle persone in senso lato. Ha introdotto in Italia gli studi linguistici, ne ha fatto una disciplina a sé, emancipandola dalla glottologia e dalla storia di una lingua. De Mauro ha ricostruito il testo fondativo della linguistica moderna, il Cours de linguistique générale di Ferdinand de Saussurre – era il 1967 – prima disponibile solo in una versione indiretta. Ma l’indagine sulla lingua lo ha indirizzato verso i parlanti. Sono loro l’oggetto di un impegno durato oltre cinquant’anni.

In “La cultura degli italiani”, a cura di Francesco Erbani, edito da Laterza, De Mauro cita il caso sardo e la bravura di Michelangelo Pira:
«Se ci si riferisce esclusivamente alle culture intellettuali – tanto più con l’ulteriore restrizione alle sole culture letterarie – si ha una visione abbastanza distorta e rischiamo di perdere di vista fenomeni enormi quali la rivoluzione avvenuta in campo linguistico, una rivoluzione in parte nascosta, di cui la cultura alta non è pienamente consapevole perché rifiuta perfino i numeri che ci permettono di capire che cosa è successo tra la metà del Novecento e oggi. Non mi riferisco solo al cammino verso l’appropriazione della lingua nazionale.

Una lingua che cinquanta anni fa era sconosciuta per lo meno a due terzi della popolazione e che oggi è parlata – più o meno bene, in modo più o meno soddisfacente – dal 95 per cento degli italiani ed è scritta – di nuovo, in modo più o meno soddisfacente – da molto più di un terzo della popolazione. Ma non è questo il fenomeno che a mio avviso merita più attenzione. Penso anche a quell’ordine di accadimenti culturali di cui si sono occupati pochi, e uno dei pochi e un bravissimo studioso e intellettuale sardo che si chiamava Michelangelo Pira.

Pira ha scritto un bellissimo libro molti anni fa, dal titolo completamente sballato ed enigmatico: “La rivolta dell’oggetto”. Io ho tentato di farmene propagandista, ma con scarso successo.

Pira prende in esame la cultura del mondo contadino sardo, ma la sua indagine vale per tutta la realtà del mondo contadino, ancora dominante in Italia – se si ha una visione larga della cultura – negli anni Cinquanta.

Questo mondo aveva al suo centro, secondo Pira, non solo la famiglia o la famiglia allargata, ma la «bottega familiare» vista come elaborazione del sapere e del saper fare, e anche del sapersi orientare nel modno delle relazioni. Lì si imparavano le cose più importanti della vita, lì più che a scuola. Dall’igiene al modo in cui si tiene una casa. Nel mondo contadino più propriamente inteso si andava molto in là, la casa si imparava a costruirla.

La bottega familiare garantiva a gran parte della popolazione, tagliata fuori dalla sucola, un tessuto di competenze che, dopo essere state capitalizzate, sono state investite. La manodopera che dalle campagne si spostava in città quelle competenze le ha messe al servizio della grande industria a costi bassissimi.

Chi è arrivato in città non ha trovato nulla, o quasi nulla, di ciò che la bottega familiare in una realtà contadina riusciva a garantire. Gli adulti hanno trovato lavoro e redditi più alti, e questo era desiderabile. Ma i loro figli non hanno trovato niente. Hanno trovato scuole assolutamente incapaci di capire cosa potessero o dovessero fare dinanzi a questi nuovi arrivati.

Pira scrive dieci, quindici anni dopo questi avvenimenti. Ma è impressionante che sul campo negli anni Cinquanta solo alcuni, da Pier Paolo Pasolini a don Lorenzo Milani, colgano il rischio di quello che stava avvenendo. Il rischio di quello che quasi vent’anni dopo, in un editoriale del Corriere della Sera, Eugenio Montale chiamò «Il terremoto antropologico sotterraneo».

Michelangelo Pira di Bitti (in Sardegna insieme con Francesco Masala di Nughedu San Nicolo’) è stato uno dei più bravi intellettuali a inquadrare, delineando un modello di comprensione universale, le conseguenze dell’avvento della civiltà del consumo sulla società rurale. Tullio De Mauro lo ha riconosciuto.

L’illustre linguista è stato uno dei padri della Legge 15 dicembre 1999, n. 482, contenente norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche. Diverse sue riflessioni sulla linguistica riguardano indirettamente il caso del sardo:
«Credo che per far vivere o rivitalizzare un idioma il ruolo della scuola sia assolutamente necessario, ma non basta se l’insegnamento non è sostenuto da un’effettiva pratica sociale.

Quanto alla legge 482 certo che si sarebbe potuto fare meglio, senza arrampicarsi sugli specchi ma riprendendo i testi di legge a loro tempo proposti, spesso proprio da deputati friulani, come Mario Lizzero, Loris Fortuna, Baracetti e Silvana Schiavi Fachin. Non ci si è riusciti. Ma, come ho già detto loro, meglio la 482 che niente.

Specialmente fuori delle regioni a statuto speciale essa sta dando discreti frutti, ci sta aiutando a portare non di nascosto le lingue nelle scuole e a toglierle dal ghetto di lingue “minorate” di cui magari vergognarsi».